Ma, e questo era il dato N. 3, che solo lui ora aveva scoperto, la piccola stella insignificante nota come NGS 549672 si trovava precisamente là dove era giusto che fosse. Stava nel cuore della costellazione della Carena, a un'estremità di quella striscia di fuoco che lo stesso Jan aveva visto, poche notti prima, staccarsi dal Sistema Solare per lanciarsi sopra gli abissi dello spazio.
Era assurdo che si trattasse di una combinazione. NGS 549672 "doveva" essere il sistema stellare dove si trovava il mondo dei Superni. Tuttavia, accettare il fatto significava per Jan violare tutti i principi tanto amati del metodo scientifico. Ebbene, peggio per quei principi. In quell'occasione doveva accettare il fatto che, in certo qual modo, il fantastico esperimento di Rupert aveva attinto a una fonte di conoscenza, ignota fino a quel momento.
Rashaverak? Sembrava la spiegazione più probabile. Il Superno non aveva partecipato alla catena, ma questo non aveva molta importanza. Tuttavia Jan non era attratto dal meccanismo della parafisica: era la sola utilizzazione dei risultati che lo interessava.
Si sapeva ben poco della stella NGS 549672: non era mai stato notato niente che la distinguesse da milioni di altre stelle. Ma il Catalogo ne dava la grandezza in luminosità, le coordinate, il tipo spettrale. Jan avrebbe dovuto ora fare qualche ricerca, insieme con un po' di calcoli abbastanza semplici. Solo allora avrebbe saputo, almeno approssimativamente, quanto il mondo dei Superni distasse dalla Terra.
Un lento sorriso si allargò sulla faccia di Jan, quando il giovane si staccò dal Tamigi per tornare verso la bianca facciata abbagliante del Centro Scientifico. Sapere è potere, e lui era il solo uomo sulla Terra a sapere da dove provenivano i Superni. Come avrebbe utilizzato quella conoscenza, non poteva immaginare: ma l'avrebbe custodita al sicuro nella sua mente, aspettando il momento del destino.
9
La razza umana continuava a crogiolarsi nel lungo e limpido pomeriggio estivo della pace e della prosperità. Sarebbe mai più venuto l'inverno? Era impensabile. L'età della ragione, precocemente annunciata dai capi mati del metodo scientifico. Ebbene, e mezzo prima, era arrivata. E stavolta non c'era possibilità di errore.
Non che mancassero gli inconvenienti, d'accordo, ma li si accettava di buon grado: bisognava essere davvero molto vecchi per avvertire la noia dei notiziari giornalistici che le telescriventi riproducevano in ogni casa. Del tutto scomparse le crisi politiche ed economiche che un tempo originavano titoli e lettere cubitali. Non esistevano più delitti misteriosi che lasciassero perplessa la polizia e destassero in milioni di petti un'indignazione morale che spesso non era che invidia mascherata. I delitti che ancora si commettevano non erano mai misteriosi: bastava semplicemente girare un disco, o una manopola, e si poteva vedere il delitto riprodotto nei minimi particolari. Che esistessero strumenti simili aveva provocato in un primo momento un'ondata di panico fra la gente rispettosa della legge, e timorata. Era una cosa che i Superni, i quali si erano impadroniti quasi completamente di tutti i ghiribizzi della psicologia umana, non avevano previsto. Fu necessario far capire chiaramente che a nessun occhio indiscreto era dato spiare le azioni private dei suoi simili e che i pochissimi strumenti nelle mani degli uomini sarebbero stati sotto la più stretta sorveglianza. Il Proiettore di Rupert Boyce, per esempio, non poteva funzionare oltre i limiti della Riserva, ragione per cui Rupert e Maia erano le uniche persone entro il suo raggio d'azione.
Perfino i rarissimi crimini di eccezionale gravità non avevano particolare rilievo nei notiziari, dato che la gente veramente educata non desidera, dopo tutto, leggere gli errori sociali commessi dagli altri.
La settimana media lavorativa era ridotta ormai a venti ore, ma queste venti ore non rappresentavano certo una sinecura. Ben poco lavoro restava di natura automatica, monotona. Il cervello umano era troppo prezioso per sprecarlo in lavori che qualche migliaio di transistor, poche cellule fotoelettriche e un metro cubo di circuiti stampati potevano fornire facilmente. C'erano fabbriche che lavoravano per settimane di seguito, ininterrottamente, senza essere visitate da un solo essere umano. Gli uomini erano necessari per eliminare inconvenienti, decidere, progettare nuove iniziative. Gli automi facevano il resto.
I più possedevano due case, nelle parti del mondo più lontane l'una dall'altra. Ora che le regioni polari erano state aperte alla colonizzazione umana, una notevole minoranza degli esseri umani oscillava dall'Artico all'Antartico con un moto pendolare che aveva una frequenza di sei mesi in media, poiché era invalsa la moda di andare alla ricerca della lunga estate polare senza notte. Altri erano andati a stabilirsi nei deserti, sulle montagne o addirittura sul fondo del mare. Non, c'era più un luogo sulla faccia del pianeta dove scienza descrittiva e scienza applicata non potessero dare una casa confortevole a chi ne sentisse profondamente la necessità.
Alcune tra le più eccentriche dimore erano divenute la fonte delle poche notizie sensazionali che si divulgassero. Anche nella società più perfettamente organizzata sarebbero sempre avvenuti incidenti. Forse era buon segno che la gente ritenesse che valeva la pena di rischiare, e spesso di rompersi l'osso del collo, per amore di una villa accogliente sotto la sommità dell'Everest, o dominante il panorama attraverso gli spruzzi iridescenti delle Cascate Victoria. Di conseguenza, c'era sempre qualcuno che veniva tratto in salvo da qualcun altro. Era diventato una specie di gioco, quasi uno sport universale.
La gente poteva indulgere in queste manie, perché disponeva di tempo e di denaro. L'abolizione delle forze armate aveva quasi immediatamente raddoppiato le ricchezze, e la produzione accresciuta aveva fatto il resto. Di conseguenza, era difficile paragonare il tenore di vita dell'uomo del ventunesimo secolo con quello di ogni altro secolo precedente. Tutto era così a buon mercato che i generi di prima necessità erano gratuiti, elargiti, come un servizio pubblico, dalla comunità, così come lo erano stati un tempo strade, acqua, illuminazione stradale e fognature. Un individuo poteva viaggiare per le destinazioni più disperate, mangiare qualunque cibo di cui gli saltasse il ticchio, senza mai dover sborsare denaro. Si era guadagnato questo diritto nella sua qualità di membro produttivo della comunità.
C'erano, si capisce, dei fannulloni, ma il numero di persone che abbiano sufficiente forza di volontà d'indulgere in una vita di ozio assoluto è assai più piccolo di quanto si crederebbe. Mantenere quei parassiti rappresentava un fardello molto meno grave del raccogliere gli eserciti di esattori, commessi, impiegati di banca, agenti di cambio e così via, tutta gente la cui funzione principale consisteva, considerando la cosa da un punto di vista globale, nel trasportare voci ed elenchi di voci da un registro all'altro.
Quasi un quarto della totale attività del genere umano, si calcolava, era assorbito da sport e svaghi di varia natura, che andavano da quelli più sedentari come gli scacchi a occupazioni mortali come il volo-sci per attraversare le valli da un crinale all'altro. Un imprevedibile risultato di tutto ciò fu l'estinzione degli sportivi professionisti. C'erano troppi dilettanti abilissimi, e le mutate condizioni economiche avevano reso antiquato il sistema di un tempo.
Subito dopo lo sport, lo svago rappresentava il massimo sforzo di produzione industriale. Per oltre un secolo c'era stata gente che aveva creduto Hollywood il centro del mondo; potevano forse fare la stessa affermazione anche adesso, e a maggior ragione, ma non andava errato chi avesse detto che in massima parte la produzione cinematografica del 2055 sarebbe parsa puro intellettualismo incomprensibile ai pubblici del 1955. indubbiamente, si era raggiunto qualche progresso: il botteghino non era più il signore assoluto.
Fra tutte le distrazioni e le deviazioni di un pianeta che ormai aveva tutta l'aria di diventare in breve un immenso giardino di ricreazione, si trovavano persone che avevano ancora il tempo di ripetere l'antichissima domanda, ch'era sempre rimasta senza risposta: "Dove andremo a finire?".
10
Jan si appoggiò all'elefante e posò le mani sull'epidermide del bestione, ruvida come la scorza di un albero. Guardò le zanne enormi e la proboscide ricurva colpito dall'abilità dell'imbalsamatore che aveva saputo cogliere quel momento di sfida, o di saluto. Si chiese quali altre creature avrebbero visto un giorno, su qualche mondo sconosciuto, quell'esemplare terrestre.
«Quanti animali hai mandato ai Superni?» chiese a Rupert.
«Una cinquantina almeno, ma questo è il più grosso. Magnifico, vero? Gli altri animali erano quasi tutti piccoli: farfalle, serpenti, scimmie, e così via. L'anno scorso però mi sono procurato un ippopotamo.»
Jan increspò le labbra in una smorfia.
«È un pensiero morboso» disse «ma immagino che debbano ormai avere un magnifico esemplare impaglialo dell'Homo Sapiens nella loro raccolta. Chi avrà avuto tanto onore?»
«Deve essere proprio così» rispose Rupert in tono indifferente. «Non credo che sia stato loro difficile mettersi d'accordo con qualche ospedale.»
«Che cosa succederebbe» disse Jan, pensoso «se qualcuno sì offrisse di andare come campione vivo? Purché sia garantito il ritorno, naturalmente.»
Rupert rise, comprensivo.
«È per caso un'offerta da parte tua? Vuoi che ne parli a Rashaverak?»
Per un istante, Jan rifletté sull'idea prendendola sul serio. Infine scosse la testa.
«No... no. Pensavo a voce alta, ecco tutto. Mi respingerebbero senza esitare. A proposito, hai occasione di vedere spesso Rashaverak in questo periodo?»
«Mi ha telefonato cinque o sei settimane fa. Aveva trovato un libro a cui davo disperatamente la caccia da non so quanto tempo. È stato molto gentile.»
Jan fece lentamente il giro del pachiderma imbalsamato, ammirando ancora una volta l'arte che lo aveva immobilizzato per sempre in quell'istante di massimo vigore.
«Hai mai scoperto che cosa cercasse nella tua biblioteca?» domandò. «Voglio dire che sembra molto difficile conciliare la scienza dei Superni con la passione per l'occultismo.»
Rupert guardò Jan sospettosamente, senza capire se il cognato si prendesse gioco, o no, della sua innocente mania.
«Le sue spiegazioni mi sono sempre parse convincenti. Come antropologo era attratto da ogni aspetto della nostra cultura. Non dimenticare che hanno moltissimo tempo a disposizione. Possono penetrare in ogni particolarità molto più di quanto potrà mai fare uno studioso della nostra specie. Leggersi tutta la mia biblioteca probabilmente non è stato che un lievissimo sforzo da parte di Rashaverak.»
Poteva anche darsi che fosse la risposta giusta, ma Jan non si sentì convinto. C'erano state occasioni in cui aveva pensato di confidare il suo segreto a Rupert, ma la sua naturale prudenza lo aveva sempre trattenuto. Quando avesse rivisto il suo amico Superno, Rupert avrebbe probabilmente rivelato qualche cosa: la tentazione sarebbe stata troppo forte.
«Incidentalmente» disse Rupert, cambiando discorso a un tratto «se credi che il mio sia stato un lavoro di caccia grossa, dovresti vedere l'incarico che ha avuto Sullivan. Si è impegnato a consegnare le due più grosse bestie del pianeta: un capodoglio e una piovra gigante. Appariranno allacciati tra loro in una lotta mortale. Che quadro!»
Per un istante Jan non parlò. L'idea che gli era esplosa nella mente era troppo fantastica per essere presa sul serio. Eppure, proprio per la sua temerarietà poteva avere buon esito...
«Che ti è successo?» domandò Rupert, ansiosamente. «Il caldo comincia forse a darti noia?»
Jan si scosse per ritornare alla realtà.
«No, no, sto benissimo» rispose. «Pensavo soltanto come faranno i Superni a trasportare un pacchetto come questo!»
«Oh» fece Rupert «una di quelle loro astronavi da carico scenderà fin sulla superficie del pianeta, aprirà uno dei portelli a piano inclinato e lo stiverà nel suo ventre in due minuti.»
«Era appunto quello che stavo pensando» osservò Jan.
Sarebbe anche potuta essere la cabina di un'astronave, ma non lo era. Le pareti erano ricoperte di manometri e strumenti vari: non c'erano finestrini o sportelli, ma solo un vasto schermo davanti al pilota. Il batiscafo poteva trasportare sei passeggeri, ma per il momento Jan era il solo.
Il pilota stava ora scendendo dalle alte regioni dell'oceano verso l'ancora inesplorata vastità del South Pacific Basin, seguendo, come Jan sapeva, l'invisibile reticolato di onde sonore prodotto da un radiofaro lungo i fondali dell'oceano. Navigavano ancora molto al di sopra del fondo, simile a nuvole sopra la superficie della Terra.
C'era ben poco da vedere: i riflettori del mezzo sottomarino frugavano le acque invano. Lo sconvolgimento creato dai getti di propulsione aveva probabilmente fatto fuggire le creature di minor mole: se qualche creatura fosse andata a vedere la causa di tanta commozione equorea, sarebbe stata di tali dimensioni da non conoscere il significato di paura.
«È tempo di fare il punto» disse il pilota. Girò una serie di manopole, e il batiscafo giunse dolcemente in stato di quiete, rallentando a mano a mano che la forza d'inerzia perdeva potenza. Lo scafo, immobile ora, si librava nell'elemento liquido come un pallone galleggiante nell'atmosfera.
Ci volle poco per controllare la loro posizione sul reticolo del sonar. Quand'ebbe finito di esaminare gli strumenti, il pilota disse: «Prima di riaccendere i motori, cerchiamo di sentire qualche cosa.»
L'altoparlante inondò la cabina silenziosa con un lungo mormorio sommesso, continuo; non c'era suono dominante che Jan potesse distinguere dal resto. Era uno sfondo compatto di suoni, nel quale si fondevano tutti i rumori del mondo subacqueo. Jan stava ascoltando le voci di miriadi di creature marine che parlavano tutte insieme. Era come stare al centro di una foresta brulicante di vita, salvo che nella foresta uno avrebbe distinto alcune voci singole, mentre lì non un solo filo della trama sonora poteva essere dipanato e identificato. Ed era un insieme di suoni così nuovo e bizzarro e diverso da tutto quello che aveva sempre udito in vita sua, che Jan si sentì rabbrividire. Eppure anche quelle regioni facevano parte del suo mondo.
L'urlo s'incise sullo sfondo di vibrazioni sonore come un fulmine che fori un ammasso di nubi tempestose. Poi si affievolì rapidamente, scemando in un lamento spettrale, un ululato che alla fine si spense in un sospiro, per essere rilanciato dopo un istante da una fonte più lontana. Poi fu un'esplosione subitanea di urli, un coro di strilli, che raggiunse in breve l'apice tanto da costringere il pilota ad allungare in fretta la mano verso il comando del volume.
«In nome di Dio, che cosa era quel frastuono?» ansimò Jan.
«Impressionante, non è vero? È un gruppo di balene a dieci chilometri di distanza. Sapevo che si trovavano da queste parti e ho pensato che vi sarebbe piaciuto sentirle.»
«E io ho sempre creduto che il mare fosse silenzioso! Ma perché fanno tanto baccano?»
«Comunicano tra loro, suppongo. Sullivan potrebbe dirvelo. Pare che il professore possa perfino identificare delle balene singole, per quanto io stenti a crederlo. Oh, ecco qua! Abbiamo visite!»
Un pesce dalle fauci spalancate, incredibilmente larghe, era comparso sullo schermo. Sembrava molto grosso, ma poiché Jan non conosceva la scala della ripresa televisiva, era difficile stabilirlo. Da un punto immediatamente sotto le branchie, gli penzolava un lungo tentacolo, che terminava in un organo non identificabile, a forma di campana.
«Lo stiamo vedendo con gli infrarossi» disse il pilota. «Guardiamo ora l'immagine al naturale.»
Il pesce svanì, e rimase solo l'organo pendulo, dal quale emanava una vivida fosforescenza. Poi, appena per un istante, la sagoma della strana creatura tremolò visibile, mentre una linea d'impulsi luminosi saettava lungo il suo corpo.
«È un pesce-rospo, detto anche rana-pescatrice, perché il peduncolo gli serve come esca per attirare le prede. Fantastico, vero? Quello che non riesco a capire è perché la sua esca naturale non attiri pesci abbastanza grossi da divorarlo. Purtroppo non possiamo stare fermi qui tutto il giorno. Guardate come scappa, ora che metto in azione i getti.»
La cabina riprese a vibrare mentre lo scafo si muoveva in avanti. Il grande pesce luminoso a un tratto accese tutte le sue luci, come in un frenetico segnale di allarme, e filò via, meteora lanciata nelle tenebre degli abissi.
Il sottomarino continuò a scivolare dolcemente come su un piano inclinato, scendendo sempre più negli abissi; ora sullo schermo cominciava a delinearsi un quadro completo, ma dato l'angolo d'inclinazione Jan ci mise un po' di tempo per interpretare quello che vedeva. Infine capì: si stavano avvicinando a una montagna sommersa che emergeva come una escrescenza dalla pianura invisibile.
«Siamo quasi arrivati» disse al pilota. «Fra un minuto potrete vedere il laboratorio.»
Passarono lentamente sopra uno sperone roccioso che sporgeva dalla base della montagna, e la piana sottostante cominciò a delinearsi. Jan immaginò che lo scafo si trovasse ora solo a qualche centinaio di metri al disopra del fondo oceanico. Quindi vide, a un chilometro circa davanti a sé, un ammasso di sfere sorrette da tripodi e collegate tra loro da tubi. L'insieme ricordava in modo straordinario i serbatoi di uno stabilimento chimico, e infatti era stato concepito in base agli stessi principi fondamentali. La sola differenza stava nel fatto che le pressioni a cui bisognava opporre resistenza erano esterne, non si originavano internamente.
Il pilota abbassò una piccola leva e si sporse verso il quadro comandi.
«SDue chiama il Laboratorio. Sto per agganciarmi.»
La risposta venne immediatamente:
«Laboratorio a SDue. Sta bene. Procedete pure e prendete contatto.»
Le ricurve pareti metalliche cominciarono a riempire lo schermo. In pochi minuti il batiscafo era premuto fortemente contro la parete della base, le due aperture a tenuta stagna si erano congiunte e si spingevano attraverso lo scafo fino al fondo di una gigantesca spirale. Venne poi il segnale di "equilibrio di pressione" dalla camera di equilibrio, e l'accesso al Laboratorio Abissale Numero Uno fu aperto. Jan trovò il professor Sullivan in una stanzetta non molto linda e ordinata che sembrava combinare in sé le caratteristiche di ufficio, laboratorio scientifico e officina. Il professore stava studiando al microscopio l'interno di quella che sembrava una piccola bomba. Presumibilmente si trattava di una capsula a pressione contenente alcuni campioni di vita abissale che continuavano a nuotare allegramente nelle normali condizioni di varie tonnellate di pressione per centimetro quadrato.
«Ebbene» disse Sullivan, strappandosi a malincuore dall'oculare «come sta il nostro Rupert? E in che posso esservi utile?»
«Rupert sta bene, grazie» rispose Jan. «Vi manda i suoi saluti e dice che gli piacerebbe tanto venirvi a trovare quaggiù, se non fosse per la sua claustrofobia.»
«Certo che si sentirebbe piuttosto a disagio qua sotto, con cinque chilometri d'acqua sopra la testa. A voi non fa effetto questa idea?»
Jan alzò le spalle.
«Non più che se mi trovassi a bordo di uno stratoplano. Se dovesse succedere qualche cosa, il risultato sarebbe lo stesso tanto nell'uno quanto nell'altro caso.»
«E in questo modo infatti che si deve ragionare, ma è sbalorditivo quanto pochi siano quelli che ragionano così.» Gingillandosi con i controlli del suo microscopio, Sullivan lanciò a Jan un'occhiata indagatrice. «Sarà per me un vero piacere farvi visitare l'impianto» riprese «ma devo confessare che sono rimasto alquanto sorpreso, quando Rupert mi ha comunicato la vostra richiesta. Non ho capito perché mai uno di voi astrofili, maniaci del vuoto assoluto degli spazi cosmici, si sentisse attratto dal nostro lavoro, Non avete scelto per caso la direzione opposta?» Sbottò in una risatina divertita. «Personalmente, non ho capito la vostra fretta di venire qui. Passeranno secoli, prima che la totalità delle estensioni subacquee sia stata minutamente riprodotta, registrata, catalogata.»
Jan respirò profondamente. Era contento che fosse stato proprio Sullivan ad affrontare l'argomento, perché ciò gli facilitava il compito. Nonostante il tono ironico dell'ittiologo, i due uomini avevano molte cose in comune. Non doveva essere tanto difficile gettare un ponte fra loro, cattivarsi la comprensione e l'aiuto cordiale di Sullivan.
«Professor Sullivan» cominciò Jan «se, appassionato dell'oceano come siete, vi vedeste negare dai Superni il permesso addirittura di avvicinarlo, come vi comportereste?»
«Proverei un sentimento di profonda contrarietà, non c'è dubbio.»
«Ne sono certo. E supponendo che un giorno vi si offrisse l'occasione di raggiungere il vostro scopo, a loro insaputa, che cosa fareste? Cogliereste quell'occasione?»
«Naturalmente» rispose pronto Sullivan, senza esitare. «Prima si agisce e poi si discute.»
"Ci sei questa volta" pensò Jan. "Non puoi tirarti più indietro ora, a meno che tu abbia paura dei Superni. E non mi sembri il tipo d'aver paura." Protendendosi verso lo scienziato si dispose a esporre il suo progetto.
Il professor Sullivan non era stupito, e prima ancora che Jan cominciasse a parlarne, le sue labbra si atteggiarono in un sorriso ironico.
«Dunque, si tratta di questo, eh?» disse lentamente. «Molto, molto interessante. Ora raccontatemi tutto e ditemi perché dovrei aiutarvi.»
11
In un'epoca precedente, ricorrere al professor Sullivan sarebbe stato un lusso costoso. Le sue operazioni costavano quanto una piccola guerra, e in realtà lui era assai simile a un generale impegnato in una eterna battaglia contro un inesauribile nemico. Il nemico del professor Sullivan era il mare, e il mare combatteva con le sue armi: il freddo, il buio, e soprattutto la pressione. Dal canto suo Sullivan teneva impegnato l'avversario con l'intelligenza e l'abilità tecnica. E aveva vinto molte battaglie. Ma il mare era paziente e non aveva fretta. Un giorno, Sullivan lo sapeva, lui avrebbe fatto un errore. Comunque aveva la consolazione di sapere che non sarebbe mai annegato, perché la fine sarebbe avvenuta in altro modo, e più rapido.
Quando Jan gli aveva fatto la sua richiesta, lui non si era impegnato in alcun modo, pur sapendo quale sarebbe stata, alla fine, la sua risposta. Quella era l'occasione per un esperimento tra i più interessanti, ma, come accade spesso nel campo delle ricerche scientifiche, Sullivan aveva in corso altri progetti che richiedevano parecchio tempo per essere portati a termine.
Il professor Sullivan era intelligente e capace, ma ripensando alla sua carriera si rendeva conto perfettamente di non avere affatto raggiunto quella fama che rende immortale il nome di uno scienziato. E nella inattesa e allettante richiesta di Jan c'erano realmente tutti gli elementi per passare alla storia. Non avrebbe mai ammesso, però, di nutrire questa ambizione, e per rendergli giustizia bisogna dire che avrebbe aiutato Jan anche se il suo concorso nell'attuazione del progetto fosse dovuto restare segreto.
In quanto a Jan, ora stava ripensandoci. Nell'entusiasmo della sua scoperta si era spinto troppo oltre. Aveva fatto le sue indagini, ma non era mai, prima, passato a una vera azione diretta per realizzare il suo sogno. Adesso, però, se il professore Sullivan accettava di aiutarlo, lui non aveva più modo di ritirarsi e doveva affrontare il futuro che lui stesso si era scelto con tutto quello che una simile scelta comportava.
Fu il pensiero che, se avesse rifiutato quella incredibile occasione, non se lo sarebbe mai perdonato, a farlo decidere. Rinunciare avrebbe significato passare il resto della vita a rammaricarsi e rimproverarsi, e questo era inaccettabile.
La risposta di Sullivan gli arrivò qualche ora più tardi. Ormai il dado era tratto. Senza fretta, perché di tempo ne aveva più che a sufficienza, cominciò a sistemare le sue faccende.
"Carissima Maia" (la lettera cominciava così) "senza dubbio questa sarà per te, a dir poco, una sorpresa. Quando riceverai questa lettera io non sarò più sulla Terra. Con ciò non voglio dire di essere partito per la Luna, come già molti altri hanno fatto. No, sarò in viaggio per il mondo dei Superni. Sarò il primo essere umano che abbia lasciato il Sistema Solare.
"Affido questa lettera all'amico che mi aiuta: la conserverà fino a quando non avrà saputo che il mio piano ha avuto buon esito, almeno nella sua prima fase, quando cioè sarà troppo tardi perché i Superni possano intervenire.
"Ma innanzi tutto lascia che ti spieghi come sono arrivato a tanto. Tu sai quanto mi sia sempre appassionato all'astronautica, e quale senso di frustrazione io abbia sempre sofferto per il divieto impostoci di tentare il viaggio per gli altri pianeti o di scoprire quale sia la civiltà dei Superni. Se loro non fossero mai intervenuti, noi saremmo potuti giungere ormai su Marte e su Venere. Ammetto che esistevano identiche probabilità che la razza umana si autodistruggesse con bombe al cobalto e altre armi totali che il ventesimo secolo andava elaborando. Ma talvolta penso che mi sarebbe piaciuto che l'uomo avesse avuto l'opportunità di fare da sé.
"Può darsi che i Superni abbiano le loro buone ragioni di tenerci chiusi nella 'nursery', ragioni probabilmente più che buone, più che ottime; ma anche se le conoscessi, non credo che determinerebbero una differenza nel mio modo di sentire... o di agire.
"Tutto cominciò in realtà a quella festa di Rupert. Rammenti quella sciocca seduta che, da lui predisposta, fu troncata dallo svenimento di quella vostra amica (di cui non mi ricordo più il nome)? Io avevo domandato da quale stella provenissero i Superni, e la risposta fu NGS 549672. Quando accertai che quel numero corrispondeva al nome di una stella su di un catalogo stellare, decisi di approfondire la cosa. Scoprii così che la stella si trova nella costellazione della Carena; e uno dei pochissimi fatti che sappiamo dei Superni è che vengono da quella direzione del cielo.
"Sappiamo molte cose, oggi, attraverso le nostre continue osservazioni delle loro partenze, sulla velocità delle astronavi dei Superni. Esse lasciano il Sistema Solare con tale tremenda accelerazione da avvicinarsi alla velocità della luce in meno di un'ora. Ciò significa che i Superni devono possedere un sistema propulsivo tale da agire alla pari su ogni atomo delle loro astronavi, così che nessuna cosa a bordo resta stritolata all'istante. Mi domando perché usino accelerazioni così colossali, quando hanno a loro disposizione tutto lo spazio e tutto il tempo che vogliono per accumulare il massimo di velocità. Secondo me, essi possono in un modo o nell'altro sfruttare i campi di forza che circondano le stelle, per cui devono eseguire manovre di partenza e di arrivo nelle immediate vicinanze di un sole.
"NGS 549672 si trova a una distanza di 40 anni luce dalla Terra. Le astronavi dei Superni raggiungono oltre il 99 per cento della velocità della luce, quindi il viaggio deve durare quarant'anni del nostro tempo. Il nostro tempo: questo è il punto cruciale.
"Ora, come può darsi che tu sappia, cose molto strane succedono a chi si approssima alla velocità della luce. Il tempo stesso comincia a fluire secondo un ritmo diverso, a passare cioè più lentamente, tanto che i mesi sulla Terra non sono più che ore sulle astronavi dei Superni. L'effetto è fondamentale: fu scoperto dal grande Einstein più d'un secolo fa.
"Ho fatto alcuni calcoli su quello che noi sappiamo della super-propulsione, usando i risultati fermamente stabiliti dalla Teoria della Relatività. Per i passeggeri d'una delle astronavi Superne il viaggio a NGS 549672 non può durare più di due mesi, anche se in base al computo terrestre passano ben quarant'anni. So che questo sembra un paradosso, e ci sia di consolazione il fatto che ha reso perplesse le più grandi menti del mondo fin dal giorno in cui Einstein espose la sua teoria.
"Forse, questo esempio ti mostrerà meglio il genere di cose che possono accadere e ti darà un quadro più nitido della situazione. Se i Superni mi rimandassero subito sulla Terra, io tornerei a casa invecchiato di soli quattro mesi. Ma sulla Terra in realtà saranno passati ottant'anni. Così che tu comprendi, Maia, che questo è il mio addio...
"Ben pochi vincoli mi legano qui, come sai bene, per cui posso partire con la coscienza tranquilla. Non ho detto niente alla mamma: si lascerebbe andare a qualche crisi di nervi che non potrei sopportare. È meglio così. Tu mi capisci.
"A questo punto, puoi essere colta dal dubbio che io sia impazzito, dato che sembra impossibile per chiunque salire a bordo d'una delle astronavi Superne. Ma ho trovato il modo di farlo. Non è una cosa che si verifichi molto spesso e può anche darsi che dopo questa volta non si verifichi più, perché sono certo che Karellen non ripete due volte lo stesso errore. Conosci la leggenda del Cavallo di Troia? Ma c'è nell'Antico Testamento un esempio più calzante...".
«Indubbiamente starete più comodo di Giona» disse Sullivan. «Non abbiamo la prova che quel profeta avesse comodità di luce elettrica e impianti igienici. Ma vi occorreranno provviste di scorta, e vedo che non trascurate l'ossigeno. Riuscirete a stivare tutto quello che vi occorrerà per un viaggio di due mesi in uno spazio così ristretto?»
Batté il dito sugli appunti e disegni accuratissimi che Jan aveva messo sulla tavola, tra il microscopio e il cranio di una improbabile creatura subacquea.
«Spero che l'ossigeno non sia necessario» rispose Jan. «Sappiamo che i Superni possono respirare la nostra atmosfera ma non sembrano amarla molto e io potrei non essere in grado di adattarmi alla loro. Quanto alle scorte, la narcosamina risolverà brillantemente il problema. È sicurissima. Appena partiti, mi farò un'iniezione che mi metterà fuori combattimento per sei settimane, giorno più giorno meno. Saremo quasi arrivati, per quel momento. In realtà, non era tanto dell'ossigeno o dei viveri che mi preoccupavo, quanto della noia.»
Sullivan annuì con aria saputa.
«Sì, la narcosamina è abbastanza sicura e la si può dosare con un massimo di precisione. Ma badate a munirvi di una discreta quantità di viveri immediatamente disponibili: avrete una fame da lupo quando vi sveglierete, e vi sentirete più debole di un gattino appena nato. Immaginate la prospettiva di morire di fame per il solo fatto di non trovare la forza di usare un apriscatole?»
«Ci avevo pensato, infatti» rispose Jan. «Mi difenderò con lo zucchero e la cioccolata, come al solito.»
«Bene. Mi fa piacere che abbiate previsto anche i minimi particolari, senza sottovalutarli. È con la vostra vita che state giocando, e non mi perdonerei mai di avervi aiutato a commettere un suicidio.»
Prese il cranio non meglio identificato e si pose a guardarlo con l'aria di pensare ad altro. Jan si affrettò a mettere la mano sul foglio dei disegni, per impedirgli di arrotolarsi.
«Per fortuna» riprese Sullivan «il materiale che vi occorre è di tipo corrente, e il nostro laboratorio potrà farvi trovare tutto pronto in un paio di settimane. E nell'ipotesi che cambiaste idea...»
«Non cambierò idea» disse Jan.
"Ho messo in bilancio tutti i rischi che ho deciso di correre, e non sembrano esservi errori nel mio piano. In capo a sei settimane salterò fuori dal mio nascondiglio come qualunque altro clandestino e mi consegnerò ai Superni. Ma in quel momento, il viaggio sarà quasi finito, in base al mio tempo, non dimenticarlo. Staremo per atterrare sul pianeta dei Superni.
"Naturalmente, tutto quello che accadrà da quel momento in poi, saranno loro a deciderlo. Probabilmente, sarò rispedito sulla Terra con la prima astronave, ma almeno ho la speranza di vedere qualcosa. Ho una macchina fotografica da quattro millimetri e una buona scorta di pellicola: non sarà colpa mia se non potrò servirmene. Anche nella peggiore delle ipotesi, avrò dimostrato che gli esseri umani non possono essere tenuti in quarantena per sempre. Avrò stabilito un precedente che costringerà Karellen a fare qualcosa.
"E ora, Maia cara, ti ho detto tutto quello che dovevo dirti. So che non sentirai molto la mia mancanza: ma siamo sinceri, e confessiamo che non siamo mai stati legati da troppi vincoli. Inoltre, ora che sei sposata con Rupert, sarai completamente felice nel tuo universo privato. Almeno lo spero.
"Addio, dunque, e buona fortuna, Maia. Sarà per me una gioia conoscere i tuoi nipoti... Non dimenticherai di informarli della mia esistenza, vero?
"Il tuo affezionatissimo fratello, Jan."
12
Quando Jan lo vide per la prima volta, trovò difficile convincersi che non assisteva al montaggio della fusoliera di un piccolo aereo. Lo scheletro metallico era lungo venti metri, perfettamente aerodinamico e circondato da un'intelaiatura leggera che degli operai martellavano coi loro strumenti automatici.
«Sì» disse Sullivan in risposta alla domanda di Jan «usiamo la normale tecnica aeronautica, e infatti la maggior parte di questi operai provengono dall'industria aeronautica. Non si crederebbe che una creatura di queste dimensioni potesse essere viva, o gettarsi d'un balzo completamente fuori dell'acqua, come l'ho vista fare.»
Era tutto molto affascinante, ma Jan aveva altre cose in mente. I suoi occhi andavano frugando lo scheletro gigantesco alla ricerca del nascondiglio per la sua celletta, la "bara ad aria condizionata", come Sullivan l'aveva battezzata. D'una cosa almeno fu subito certo: in quanto a spazio c'era posto per una dozzina di clandestini.
«La struttura interna parrebbe quasi completa» disse Jan. «Quando contate di ricoprirlo della sua pelle? Suppongo che abbiate già catturato il vostro capodoglio, diversamente non avreste saputo quali dimensioni dare allo scheletro.»
Sullivan parve immensamente divertito dall'osservazione.
«Ma noi non abbiamo la più lontana intenzione di catturare un capodoglio. E del resto, questi cetacei non hanno una "pelle" nell'accezione normale del termine. Sarebbe la cosa meno pratica del mondo ricoprire questo scheletro con uno strato di grasso spesso venti centimetri. No, l'intera faccenda sarà simulata con un modello di materie plastiche su cui spargeremo con molta cura una mano di tintura. Quando avremo finito, nessuno potrà accorgersi della differenza.»
Nel qual caso, pensò Jan, la sola cosa intelligente che potrebbero fare i Superni sarebbe scattare delle fotografie e poi fare il modello a grandezza naturale una volta tornati sul loro pianeta. Ma forse le astronavi addette ai rifornimenti tornavano vuote, e una bazzecola come un capodoglio lungo venti metri non era un bagaglio di cui potessero accorgersi. Quando si possedevano il loro potere e le loro risorse, a che scopo fare certe trascurabili economie?
Il professor Sullivan stava ritto presso una delle grandi statue che erano sempre state una sfida all'archeologia fin da quando l'isola di Pasqua era stata scoperta. Monarca, dio, o qualunque altra cosa potesse rappresentare, il suo sguardo senz'occhi sembrava seguire quello del professore, intento a osservare la propria opera. Sullivan era fiero di ciò che aveva fatto: gli sembrava un delitto che quel capolavoro tra breve venisse sottratto per sempre dalla vista degli uomini.
Il quadro sarebbe potuto essere l'opera di un artista folle in preda a delirio da stupefacenti. E nello stesso tempo era una scrupolosa imitazione dal vero. La Natura stessa era artista, lì. La scena era di quelle che pochi uomini avevano visto prima che si raggiungesse la perfezione delle riprese televisive subacquee, ma anche con la televisione era una scena che durava solo alcuni secondi, nelle rare occasioni in cui i giganteschi antagonisti salivano scrosciando vorticosi alla superficie. Quelle battaglie si combattevano nell'interminabile notte degli abissi oceanici, là dove i colossali capodogli andavano alla ricerca di cibo. E quel cibo si ribellava con la forza a essere divorato vivo.
La lunga mascella inferiore del cetaceo, dai denti seghettati, sbadigliava mostruosamente, preparandosi ad accogliere la preda. La testa della vittima era quasi nascosta sotto il guizzante intrico dei bianchi tentacoli carnosi, coi quali la piovra gigantesca lottava disperatamente in difesa della vita. I lividi segni lasciati dalle ventose, segni che avevano il diametro d'una ventina di centimetri, variegavano la pelle del capodoglio, là dove i tentacoli si erano avvinghiati. Ma un tentacolo era già stato ridotto a un mozzicone troncato di netto, e non poteva esservi dubbio sull'esito finale della lotta. Quando i due più grandi animali del pianeta si davano battaglia, era sempre il capodoglio a vincere, perché, nonostante tutta l'immensa forza racchiusa nella foresta dei tentacoli, la piovra poteva soltanto sperare di fuggire prima che quelle fauci l'avessero fatta a pezzi. Gli immensi occhi senza espressione (mezzo metro di diametro), fissavano il suo carnefice, anche se, con ogni probabilità, nessuna delle due creature poteva vedere l'altra nelle tenebre dell'abisso.
L'intero gruppo aveva una lunghezza di oltre trenta metri, e ora lo circondava una travatura di alluminio già agganciata al paranco di sollevamento. Tutto era pronto, secondo il piacere dei Superni. Sullivan si augurò che facessero alla svelta: la tensione stava diventando intollerabile.
Qualcuno uscì dall'ufficio nella gran luce del sole, palesemente alla ricerca del professore. Sullivan riconobbe il suo assistente e si affrettò ad andargli incontro.
«Salve, Bill... Ci sono novità?»
L'altro gli porse un modulo con espressione soddisfatta.
«Buone notizie, professore. Siamo stati onorati! Il Supercontrollore in persona desidera venire a dare un'occhiata al nostro gruppo, prima che venga caricato. Pensate alla pubblicità che significa per noi un gesto simile! Ci servirà enormemente, quando faremo la richiesta di quella nuova concessione di crediti! Era proprio qualche cosa del genere che speravo da tanto tempo!»
Sullivan inghiottì con uno sforzo. Non aveva niente contro la pubblicità, ma questa volta temeva di averne troppa.
Karellen si fermò presso la testa del capodoglio e guardò da sotto in su il gran muso tozzo e le fauci irte di avorio. Sullivan, con malcelato disagio, si chiese che cosa stesse pensando il Supercontrollore. Il suo atteggiamento fino a quel momento non aveva rilevato il minimo sospetto da parte sua, e la visita poteva anche essere del tutto naturale. Ma Sullivan si sarebbe sentito felice, quando tutto fosse finito.
«Non abbiamo animali così grandi sul nostro pianeta» disse Karellen. «È questo il motivo per cui vi abbiamo pregato di fare questa composizione. I miei... compatrioti la troveranno affascinante.»
«Con la vostra bassa gravità» rispose Sullivan «c'era da credere che si fossero sviluppati animali di grandi dimensioni. Del resto, la vostra corporatura è notevolmente superiore alla nostra.»
«Sì... ma non abbiamo oceani. E per quanto riguarda le dimensioni, la terra non può mai competere col mare.»
Cosa perfettamente vera, pensò Sullivan. E da quel che ne sapeva, quello era un fatto sconosciuto riguardo al mondo dei Superni. Jan avrebbe visto cose molto interessanti.
«Nella vostra Bibbia» riprese Karellen «si legge il racconto molto notevole di un profeta ebreo, un certo Giona, se non erro, che fu inghiottito da una balena e così trasportato a riva sano e salvo, dopo essere stato gettato in mare dalla sua nave. Ritenete che il mito si basi su fatti realmente avvenuti?»
«Io credo» rispose Sullivan cautamente «che ci sia stato qualche pescatore di balene che inghiottito da un cetaceo sia poi stato rigurgitato senza gravi conseguenze. Naturalmente, non può essere stato in gola alla balena più di qualche secondo, diversamente sarebbe morto soffocato. E deve aver avuto molta fortuna a non impigliarsi nei denti! È una storia quasi incredibile, ma non impossibile.»
«Molto interessante» disse Karellen. Rimase là ancora per qualche secondo a fissare le fauci cavernose, quindi si spostò di alcuni passi, per osservare la piovra. Sullivan s'augurò che non avesse sentito il suo sospiro di sollievo.
«Se avessi saputo tutto quello che dovevo passare» disse Sullivan «vi avrei cacciato dal mio ufficio non appena avete tentato di contagiarmi con la vostra follia.»
«Mi dispiace molto» rispose Jan. «Ma in fondo ce la siamo cavata.»
«Speriamo. Buona fortuna, a ogni modo. Se voleste cambiare idea, avete ancora almeno sei ore di tempo.»
«Non mi serviranno. Solo Karellen potrebbe fermarmi, adesso. E grazie per tutto quello che avete fatto per me. Se mai dovessi tornare, in grado di scrivere un libro sui Superni, lo dedicherò a voi.»
«Un gran bene, mi farà, il vostro libro!» rispose bruscamente Sullivan. «Sarò morto da decenni!» Con sua grande meraviglia, e anche un'ombra di costernazione perché non era certo un sentimentale, si accorse che quegli addii cominciavano a commuoverlo. Si era abituato a Jan in quelle settimane passate insieme a cospirare, e gli si era affezionato. Inoltre, cominciava a temere di diventare correo in una forma alquanto complicata di suicidio.
Tenne ferma la scaletta, mentre Jan saliva entro la gran bocca, facendo bene attenzione a non toccare le file dei denti. Alla luce della torcia elettrica, vide Jan voltarsi e fargli un cenno di saluto, poi scomparire nella cavità. S'udì il suono del portello a chiusura stagna che si apriva e richiudeva. Infine, silenzio.
Nel chiaro di luna che aveva trasformato la battaglia pietrificata in una scena d'incubo, il professor Sullivan tornò lentamente verso il suo ufficio. Rifletteva su quello che aveva fatto e sulle conseguenze. Conseguenze che lui avrebbe sempre ignorato, naturalmente. Jan sarebbe forse tornato a camminare in quello stesso punto del mondo avendo speso soltanto qualche mese di vita nel viaggio di andata per il pianeta dei Superni e in quello di ritorno. Ma questo ritorno, se ci fosse stato, sarebbe avvenuto oltre l'invalicabile barriera del Tempo, perché l'evento avrebbe potuto verificarsi solo ottant'anni più tardi.
Le luci si spensero nel minuscolo cilindro metallico appena Jan ebbe serrato il portello a chiusura stagna. Non si abbandonò a riflessioni e pentimenti, ma si mise immediatamente a controllare l'inventario che aveva già preparato. Tutte le scorte e le provviste erano già state stivate da alcuni giorni, ma un'ultima verifica l'avrebbe messo nel giusto stato d'animo che gli occorreva, con la certezza che non era stato trascurato niente.
Un'ora più tardi, soddisfatto, si sistemò comodo nella poltroncina di gomma piuma, e ricapitolò il suo piano punto per punto. Lì dentro l'unico rumore era il ronzio dell'orologio-calendario da cui avrebbe saputo quando il viaggio stava per finire.
Per quanto tremenda fosse la forza che faceva volare l'astronave dei Superni, grazie alla perfetta compensazione lì nella sua nicchia lui non avrebbe sentito niente. Sullivan aveva controllato con cura questo particolare, sottolineando che il nascondiglio non avrebbe resistito oltre una certa gravità, e gli aveva assicurato che da quel lato non c'erano pericoli.
Naturalmente durante il volo ci sarebbe stato un cambiamento considerevole di pressione, che non avrebbe però portato alcun danno, perché le bestie, cave all'interno, "respiravano" da diversi fori appositi. Prima di uscire dalla sua nicchia, Jan avrebbe dovuto controllare la pressione per compensare un eventuale squilibrio. Per quanto riguardava una probabile irrespirabilità dell'atmosfera, infine, un semplice respiratore composto da una bombola di ossigeno e una maschera sarebbe bastato per ovviare all'inconveniente. Se invece l'aria all'interno dell'astronave era respirabile, tanto meglio. Tutto molto chiaro.
Bene, non c'era scopo ad aspettare ancora. Rimandare avrebbe soltanto acuito la tensione nervosa.
Trasse la piccola siringa, già carica di una soluzione accuratamente preparata. La narcosamina era stata scoperta durante le ricerche nel campo dell'ibernazione animale. Non era esatto dire, come credevano i profani, che la narcosamina producesse una sospensione della vita fisiologica. Tutto quello che faceva era rallentare enormemente i processi vitali, ma il metabolismo continuava, sebbene con un ritmo infinitamente minore. Era come gettare cenere sul fuoco della vita per lasciarlo covare inavvertito. Ma quando, dopo settimane o mesi, gli effetti della droga cominciavano a svanire, il fuoco riprendeva la sua forza, e il dormiente ricominciava a vivere al punto in cui era rimasto.
La narcosamina era assolutamente innocua. La Natura se ne serviva da un milione di anni per proteggere molti dei suoi figli dagli inverni senza cibo.
Così Jan dormì. Non sentì la trazione dei cavi che issavano l'enorme gabbia metallica fin entro il ventre dell'astrocargo dei Superni. Non udì i portelli che si chiudevano, per riaprirsi soltanto dopo milioni e milioni di chilometri. Non udì lontanissimo, appena percettibile al di là delle paratie di titanio, l'urlo di protesta dell'atmosfera terrestre lacerata dall'astronave che risaliva rapidissima verso il suo elemento naturale.
E non sentì infuriare la superpropulsione.
13
La sala delle riunioni era sempre affollata in occasione di quegli incontri settimanali, ma oggi era così gremita che i cronisti non riuscivano nemmeno a prendere note. Per la centesima volta, brontolavano tra loro contro lo spirito conservatore di Karellen e la sua mancanza di considerazione. In qualunque altra parte del mondo avrebbero potuto portare telecamere, nastri magnetici e tutti gli altri strumenti del loro specializzatissimo lavoro. Ma lì dovevano affidarsi a mezzi arcaici come la carta e la matita, e perfino, incredibile a dirsi, la stenografia.
Le prime volte c'erano stati diversi tentativi di registrazione, molto più comodo che non stenografare, ma il fumo che era uscito immediatamente dai registratori aveva convinto tutti dell'inutilità del tentativo, e anche spiegato perché veniva sempre consigliato di lasciare fuori della sala delle conferenze gli orologi e altre eventuali congegni metallici.
Per colmo d'ironia Karellen registrava invece tutto ciò che veniva detto. Alcuni giornalisti colpevoli di leggerezza e di imprecisione o di malafede, per quanto questi ultimi casi fossero stati molto scarsi, erano stati in seguito convocati per un breve e spiacevole incontro con degli incaricati di Karellen, che li avevano pregati di ascoltare attentamente la registrazione di quello che il Supercontrollore aveva realmente detto. Dopo quella volta, la lezione non dovette più essere ripetuta.
Strano come circolano certe notizie. Ogni volta che Karellen doveva fare qualche importante dichiarazione, cosa che capitava due o tre volte all'anno, la sala delle conferenze era sempre affollata nonostante che non venisse mai dato nessun preannuncio.
Il silenzio discese sulla turba mormorante quando i grandi portali si spalancarono e Karellen avanzò sul palco. La luce qui era fioca - una luce come quella, approssimativamente, che emetteva il lontanissimo sole dei Superni così che il Supercontrollore della Terra aveva fatto a meno degli occhiali neri che di solito portava allo scoperto.
Rispose al coro discorde di saluti con un "Buon giorno a tutti" di prammatica, e poi si volse verso un'alta figura di particolare distinzione in prima fila. Il signor Golde, decano dell'Associazione della Stampa, sarebbe potuto essere l'ispiratore ufficiale dell'annuncio, da parte di un maggiordomo: "Tre cronisti, milord, e un signore del 'Times'". Era vestito come un diplomatico di vecchia scuola e ne aveva i modi: nessuno avrebbe esitato un istante ad aver fiducia in lui e nessuno aveva mai dovuto pentirsi, infatti, di essersi fidato.
«Quanta gente oggi, signor Golde. Deve esserci una grande scarsità di notizie sensazionali.»
L'inviato del "Times" sorrise, e si schiarì la voce.
«Spero che possiate smentire il fatto, signor Supercontrollore.»
Osservò attentamente Karellen che meditava sulla risposta da dare. Sembrava così ingiusto che le facce dei Superni, dure ed ermetiche come maschere, non rivelassero ombra d'emozione! I grandi occhi distanziati, le pupille fortemente contratte anche in quella luce blanda, ricambiavano insondabilmente le occhiate francamente curiose degli umani.
«Sì, ho qualche notizia interessante. Come indubbiamente sapete, una delle mie astronavi addette ai rifornimenti ha lasciato di recente la Terra per tornare alla sua base. Abbiamo appena scoperto che a bordo c'era un clandestino» disse il Supercontrollore.
Cento matite s'impuntarono sulla carta, immobilizzandosi: cento paia d'occhi fissarono Karellen.
«Un clandestino, avete detto, signor Supercontrollore?» chiese Golde. «Posso domandarvi chi è e come è salito a bordo?»
«Il suo nome è Jan Rodricks: si tratta di uno studente di fisica e astronomia dell'Università di Città del Capo. Potrete senza dubbio scoprire altri particolari grazie ai vostri efficientissimi organismi d'informazione.»
Karellen sorrise. Il sorriso del Supercontrollore era una cosa molto strana. Quasi tutto l'effetto in realtà era dato dagli occhi: la inflessibile bocca senza labbra non si muoveva quasi. Era forse, pensò Golde, un'altra delle molte caratteristiche umane che Karellen aveva imitato con tanta abilità? Perché l'effetto totale era senza dubbio quello d'un sorriso, e la mente lo accettava all'istante come tale.
«Quanto al modo in cui è potuto partire» continuò Karellen «non ha molta importanza. Posso assicurare i presenti, o qualunque altro potenziale astronauta, che non c'è nessuna possibilità di ripetere l'impresa.»
«Ma che cosa accadrà a questo Rodricks?» insistette Golde. «Sarà rimandato sulla Terra?»
«È una cosa, questa, che esula dalle mie competenze, ma ritengo che tornerà con la prima nave in arrivo. Troverebbe condizioni troppo... diverse... per sentirsi a suo agio, là dove è andato. E ciò mi riconduce allo scopo principale della nostra riunione.» Karellen fece una pausa, e il silenzio divenne ancor più profondo. «Ci sono state lamentele tra i più giovani e romantici elementi della specie umana perché lo spazio cosmico è stato proibito all'uomo. Noi abbiamo uno scopo preciso, signori, non imponiamo divieti per il solo gusto d'imporli. Vi siete mai soffermati a considerare, se mi perdonerete un paragone non molto lusinghiero, che cosa avrebbe sentito un uomo dell'Età della Pietra se si fosse trovato a un tratto in una grande città moderna?»
«Eppure» protestò l'inviato dell'"Herald Tribune" «c'è indubbiamente una differenza fondamentale. Noi abbiamo fatto l'abitudine alla scienza. Sul vostro mondo ci sono moltissime cose che senza dubbio noi non potremmo capire... ma non ci sembrerebbero davvero opera di magia!»
«Ne siete proprio sicuro?» ribatté Karellen così piano che fu appena possibile udirlo. «Non più di cento anni intercorrono fra l'era della elettricità e quella del vapore, ma cosa se ne sarebbe fatto, un ingegnere dell'Ottocento, di un televisore o di una calcolatrice elettronica? E quanto gli sarebbe rimasto da vivere se avesse voluto scoprire il loro funzionamento? Il divario fra due tecnologie può essere così ampio, da rivelarsi... letale.»
(«Siamo fortunati» disse l'inviato della "Reuter" a quello della BBC. «È in vena di dichiarazioni importanti sulla loro politica nei nostri riguardi. Conosco i sintomi.)»
«E ci sono altre ragioni per cui abbiamo costretto il genere umano entro i confini della Terra. Osservate.»
Le luci si affievolirono e infine si spensero. Nell'istante in cui scomparvero, un'opalescenza lattiginosa si formò nel centro della sala, macchia di luce biancastra che si condensò poi in un vortice di stelle... una nebulosa a spirale vista da un punto posto molto al di là del suo sole più esterno.
«Nessun occhio umano ha mai visto questa immagine prima d'ora» disse la voce di Karellen dal buio. «Voi ora state guardando il vostro Universo, l'isola galattica di cui il vostro Sole fa parte, da una distanza di mezzo milione di anni luce.»
Seguì un lungo silenzio. Quando Karellen riprese a parlare, nella sua voce era percettibile un sentimento che non era del tutto pietà e non precisamente sarcasmo.
«Oggi avete un mondo in pace, siete una specie unita. In breve vi sarete abbastanza inciviliti da poter governare il vostro pianeta senza il nostro aiuto. Forse potrete alla fine addossarvi i problemi di un intero Sistema Solare... diciamo di cinquanta mondi fra lune e pianeti. Ma credete davvero di poter mai avere a che fare con questo?»
La nebulosa cominciò a dilatarsi. Ora le singole stelle passavano via velocissime; apparendo, avvicinandosi, scomparendo infine come faville lanciate dall'alito di una immensa fucina. E ognuna di quelle scintille fuggenti era un sole, con chi sa quanti mondi che gli gravitavano intorno...
«In questa sola nostra galassia» mormorò Karellen «ci sono ottantasettemila milioni di soli. Ma anche questa cifra non dà che un'idea molto vaga dell'immensità dello spazio. Sfidandola, sareste come formiche che tentassero di classificare ed etichettare tutti i granelli di sabbia di tutti i deserti del mondo. La vostra razza, allo stato attuale della sua evoluzione, non è in grado di affrontare una sfida così grandiosa. Uno dei miei doveri è stato quello di proteggervi dalle forze che si trovano fra le stelle... forze superiori a qualunque cosa possiate mai immaginare.»
L'immagine dei turbinanti vapori infuocati della galassia cominciò a sbiadire, e la luce tornò nel silenzio attonito della sala.
Karellen si mosse: la conferenza era finita. Sulla soglia si fermò, volgendosi a guardare la folla, che tacque all'istante.
«È un pensiero che rattrista, ma dovete rassegnarvi. Può darsi che un giorno possiate conquistare i pianeti. Ma le stelle non sono per l'uomo.»
"Le Stelle non sono per l'Uomo." Sì, vedersi sbattere sul muso la porta dello spazio li avrebbe addolorati. Ma dovevano imparare a guardare in faccia la verità, o quella parte di verità che sarebbe stata data loro.
Dalle solitarie altezze della stratosfera, Karellen abbassò lo sguardo sul mondo e sulle creature che erano state affidate alla sua riluttante tutela. Pensò a tutto quello che doveva ancora succedere e a quello che sarebbe stato quel mondo fra una decina di anni al più tardi.
Non avrebbero mai saputo quanto erano stati fortunati. Per la durata di un'intera vita umana, il genere umano aveva raggiunto tanta felicità quanta qualunque specie vivente possa mai conoscere. Era stata l'Età dell'Oro. Ma l'Oro era anche il colore del tramonto, dell'autunno: e soltanto le orecchie di Karellen potevano cogliere i primi gemiti delle bufere invernali.
E solo Karellen sapeva con quanta inesorabile rapidità l'Età dell'Oro volgesse alla fine.
PARTE TERZA
L'ULTIMA GENERAZIONE
14
«Guarda qui!» esplose George Greggson, lanciando il giornale verso Jean al disopra della tavola. Nonostante gli sforzi di lei per prenderlo al volo, il foglio cadde ad ali spiegate nel bel mezzo della tavola. Ripulitolo pazientemente della marmellata, Jean lesse il brano incriminato, facendo del suo meglio per dimostrare la sua disapprovazione. Non che fosse molto brava in questo, dato che anche troppo spesso era d'accordo con i critici. Di solito teneva per sé quelle opinioni eretiche, e non solo per spirito di pace e di armonia. George era dispostissimo ad accettare le sue lodi, ma appena Jean accennava la minima critica a una sua opera si vedeva infliggere una lezione da lasciare i lividi sulla sua ignoranza in fatto di estetica.
Lesse la critica due volte e infine rinunciò a capire. Era una critica del tutto favorevole, e lo disse.
«A quanto pare lo spettacolo è piaciuto. Che cosa c'è da brontolare?»
«Qui» ringhiò George, battendo il dito al centro della colonna. «Rileggi qui.»
«Specialmente riposanti per gli occhi i delicati verdi pastello dello sfondo nella sequenza del balletto» lesse Jean. «Ebbene?»
«Ma non erano verdi! Non so quanto tempo ho sciupato per trovare proprio quella sfumatura azzurrina! E che cosa succede? O qualche maledetto tecnico della cabina controllo sconvolge l'equilibrio dei colori, o quel cretino d'un critico ha un difetto alla vista! A proposito, che colore è apparso sul tuo apparecchio?»
«Oh... non me lo ricordo» ammise Jean. «Bambola ha cominciato a strillare proprio in quel momento, e sono dovuta correre di là a vedere che cos'era successo.»
«Capisco» disse George, scivolando in uno stato di calma illusoria, dolcemente ribollente, sotto sotto. Jean capì che un'altra esplosione poteva verificarsi da un momento all'altro.
«Ho inventato una nuova definizione per la TV» riprese lui in un mormorio cupo. «È uno strumento per ostacolare i contatti fra l'artista e il suo pubblico.»
«E che cosa vorresti fare? Ritornare al teatro vero e proprio?»
«Perché no? È proprio quello che ho pensato di fare. Ti ricordi della lettera che ho ricevuto da quelli di Nuova Atene? Mi hanno scritto ancora. Questa volta ho deciso di rispondere.»
«Davvero?» disse Jean, lievemente preoccupata. «Secondo me, sono una manica di eccentrici.»
«Ebbene, questo è il solo modo per averne la prova. È mia intenzione andarli a trovare tra una quindicina di giorni. Bisogna riconoscere che la loro propaganda è delle più equilibrate e convincenti. E ci sono uomini eccellenti tra loro.»
«Se speri di vedermi cucinare un giorno o l'altro su di un fuoco di sterpi, o apparirti davanti vestita di pelli, ti fai...»
«Non dire sciocchezze! Sono tutte storie. La colonia ha tutto quello che serve per vivere in modo civile. Il loro sistema esclude i fronzoli e le sovrastrutture inutili, ecco tutto. Del resto, sono almeno due anni che non vedo più il Pacifico; sarà una bellissima gita per tutt'e due.»
«Sono d'accordo con te» disse Jean. «Ma non voglio che Bambola e Primo crescano come due selvaggi della Polinesia.»
«Non cresceranno come due selvaggi. Te lo prometto.»
Aveva ragione, ma non nel senso che intendeva lui.
«Come avrete osservato arrivando con l'aereo» disse l'uomo sull'altro lato della veranda «la Colonia consiste di due isole, collegate da una striscia di terra su cui passa la strada. Una è Atene, l'altra, l'abbiamo battezzata Sparta. È un'isola selvaggia, rocciosa, un luogo ideale per praticare lo sport o comunque ogni specie di esercizi fisici.» Il suo sguardo si soffermò momentaneamente sul ventre e i fianchi del visitatore, e George si agitò nella sua poltrona di vimini. «Sparta è un vulcano spento, incidentalmente. Almeno, i geologi dicono che sia spento. Ma, per tornare ad Atene: scopo della Colonia è di fondare un gruppo culturale, stabile e indipendente, con le sue tradizioni artistiche. Sarà meglio dire subito che molte ricerche sono state effettuate prima che noi intraprendessimo questa iniziativa. Si tratta in realtà di vera e propria scienza sociale applicata, che si basa su una matematica così complessa che non fingerò di averla capita. So però che i sociologi matematici hanno calcolato quanto dovrebbe essere numerosa la Colonia, quanti tipi di persone dovrebbe contenere, e soprattutto quale dovrebbe essere la sua costituzione per una stabilità di lunga durata. Siamo diretti da un Consiglio di otto direttori, che rappresentano Produzione, Energia, Tecnica Sociale, Arte, Scienze Economiche, Scienza, Sport e Filosofia. Non c'è un presidente in permanenza. La carica di presidente è ricoperta a turno da ognuno dei direttori per un anno ogni volta.
«La nostra popolazione presente è di poco superiore alle cinquantamila unità, cifra inferiore all'optimum desiderato. Ecco perché siamo sempre alla ricerca di reclute. E, naturalmente, c'è un minimo di sciupio: non siamo del tutto autosufficienti in alcune delle capacità più specializzate.
«Qui, su quest'isola, ci studiamo di salvare qualche cosa della indipendenza dell'uomo: le sue tradizioni artistiche. Non abbiamo nessuna ostilità nei riguardi dei Superni, vogliamo soltanto essere lasciati in pace e proseguire per la nostra strada. Quando essi hanno cancellato le antiche nazioni e il modo di vita che l'uomo conosceva dagli inizi della storia, hanno spazzato via, insieme con le cattive, molte buone cose. Il mondo ora è in pace, senza caratteristiche proprie, culturalmente morto. Niente di nuovo è stato creato dall'avvento dei Superni. La ragione è evidente. Non è rimasto niente per cui valga la pena di lottare, e ci sono troppi svaghi, distrazioni e divertimenti.
«Qui ad Atene lo svago ha le sue giuste proporzioni. Inoltre, è una cosa viva, non in scatola. In una comunità delle nostre dimensioni è possibile avere una partecipazione quasi completa del pubblico. A proposito, abbiamo anche un'orchestra sinfonica d'eccezionale valore. Ma non voglio che mi prendiate in parola. Di solito i candidati alla cittadinanza della Colonia si fermano qui qualche giorno ad assorbire l'atmosfera del posto. Se decidono di unirsi a noi, li sottoponiamo al tiro di sbarramento degli esami psicologici, che rappresentano la nostra vera linea principale di difesa. Un terzo circa dei candidati di solito viene respinto, quasi sempre per motivi che non hanno riflessi su di loro e che, fuori di qui, non avrebbero nessuna importanza. Coloro che superano la prova, di solito tornano a casa giusto il tempo per sistemare i loro affari, poi ritornano tra noi. Talvolta cambiano idea in questa fase, ma avviene molto di rado, e quasi sempre per motivi personali indipendenti dalla loro volontà. I nostri esami sono oggi praticamente sicuri nella misura del cento per cento: coloro che li superano sono proprio persone che desiderano venire tra noi.»
«E se qualcuno cambiasse idea più tardi?» domandò Jean ansiosamente.
«Sono liberi di andarsene. Non esiste nessuna difficoltà. Si è già verificato un paio di volte.»
Seguì un lungo silenzio. Jean guardò George, che si stropicciava pensieroso le folte basette, ritornate in gran voga negli ambienti artistici. Se non c'era bisogno di bruciare i ponti alle spalle, lei non si preoccupava più del necessario. La Colonia sembrava un posto interessante, e certamente non si componeva di stravaganti e di eccentrici come aveva temuto. E i ragazzi ci si sarebbero trovati benissimo. E questo, in definitiva, era la cosa che contava di più.
Si trasferirono a Nuova Atene sei settimane dopo. La casa a un solo piano era piccola, ma del tutto adeguata a una famiglia che non aveva intenzione di contare più di quattro membri. Tutti i congegni fondamentali per l'economia del lavoro manuale erano in mostra: almeno, come Jean dovette riconoscere, non c'era pericolo di ripiombare nelle tenebre medievali delle sfacchinate domestiche. Ma sconvolgeva un po' scoprire che c'era una cucina. In una comunità così numerosa, si sarebbe potuto credere, normalmente, alla possibilità di telefonare alla Centrale Ristoranti, attendere cinque minuti e ricevere qualunque portata uno avesse scelto per pranzo o cena. L'autonomia individuale era una gran bella invenzione, ma questo, pensò Jean, era uno spingere le cose troppo in là. Si chiese vagamente se per caso non dovesse filare lei le stoffe con cui la famiglia si sarebbe vestita, oltre che preparare i pasti. Ma non si vedeva nessuna ruota di filatoio a mano tra la lavapiatti automatica e lo schermo del radar, per cui la situazione non si annunciava poi tanto terribile...
Jean si avvicinò alla finestra ancora senza tendine e lasciò errare lo sguardo sulla Colonia. Era un posto stupendo, non c'era dubbio. La casa sorgeva sulle pendici occidentali della bassa montagna che dominava, senza rivali, l'isola di Atene. Due chilometri a nord si scorgeva la lingua di terra, una lama sottile nell'acqua, che portava a Sparta. Quell'isola rocciosa, col suo aggrondato cono vulcanico, faceva un tale contrasto con la serena Nuova Atene da mettere paura. Jean si chiese come facessero gli scienziati a dirsi tanto sicuri che il vulcano non si sarebbe ridestato per seppellirli tutti.
Un rumore metallico annunciò l'arrivo della bicicletta di George. Jean si chiese quanto tempo sarebbe occorso a entrambi per imparare ad andare in bicicletta. Questo era un altro aspetto inatteso della vita sull'isola. Le auto private non erano permesse, e infatti non erano necessarie, dato che la massima distanza che si potesse percorrere in linea retta era meno di quindici chilometri. C'erano numerosi veicoli di servizio pubblico, di proprietà della Colonia: autocarri, ambulanze, autopompe, tutti tenuti, salvo casi eccezionali, a non superare i cinquanta chilometri all'ora. Di conseguenza, gli abitanti di Atene facevano molto moto, disponevano di strade non congestionate dal traffico meccanizzato, e pertanto non conoscevano incidenti stradali.
George diede alla moglie un bacio frettoloso e distratto e si lasciò cadere con un sospiro di sollievo sulla sedia più vicina.
«Uff!» fece, asciugandosi la fronte. «Mi sono lasciato sorpassare da tutti sulla salita della collina, quindi è probabile che col tempo migliori anch'io. Sono convinto di avere già perso almeno dieci chili.»
«Com'è andata la giornata?» domandò Jean da brava moglie. Si augurava che George non fosse così stanco da non poterla aiutare a disfare le valige.
«Molto stimolante. Non posso ricordarmi nemmeno la metà della gente che ho conosciuto, ma sembrano tutti molto cordiali e gentili. E il teatro è proprio buono, esattamente come me lo aspettavo. Cominceremo a lavorare la settimana entrante con "Torniamo a Matusalemme" di Shaw. Mi è stata affidata tutta la scenografia. Sarà finalmente un refrigerio non avere più tra i piedi una mezza dozzina di persone che mi dicono tutto quello che non posso fare. Sì, credo proprio che finiremo per trovarci bene qui.»
«Nonostante le biciclette?»
George trovò energia sufficiente per un sorriso divertito.
«Sì» rispose. «Tra un paio di settimane non mi accorgerò più nemmeno di questa nostra insignificante collinetta.»
Non ci credeva, e invece fu proprio così. Ma a Jean ci volle almeno un mese per smetterla di rimpiangere l'automobile e scoprire tutte le cose che si possono fare con una cucina propria.
Nuova Atene non era nata spontaneamente da un primo agglomerato come aveva fatto la città di cui portava il nome: tutto, nella Colonia, era stato progettato, voluto e realizzato, dopo anni di studi, a opera d'un gruppo di uomini molto in gamba. Aveva avuto inizio come una cospirazione aperta contro i Superni, sfida sottintesa, se non alla loro potenza, alla loro politica. Dapprima gli esponenti della Colonia si erano sentiti quasi certi che Karellen avrebbe nettamente frustrato i loro sforzi, invece il Supercontrollore non aveva fatto niente, assolutamente niente. Non che ciò fosse parso rassicurante, come ci si sarebbe potuti aspettare. Karellen aveva a sua disposizione tutto il tempo che voleva: poteva anche preparare un colpo di risposta molto ritardato. Oppure era così certo del fallimento del progetto, da non avere bisogno di intraprendere niente contro la Colonia.
Molti avevano predetto che la Colonia sarebbe stata un fallimento. Eppure anche nel passato, molto prima che si raggiungesse la conoscenza della dinamica sociale, erano esistite parecchie comunità con un loro specifico scopo religioso o filosofico. Era vero che la percentuale di simili comunità andate in rovina era altissima. Qualcuna però era sopravvissuta. E ora Nuova Atene aveva fondamenta rese sicure dalla scienza moderna.
I motivi per la scelta di un'isola come sede della comunità erano numerosi. In un'epoca in cui le distanze erano abolite dalla facilità dei mezzi aerei, l'oceano non era più una barriera materiale, ma serviva ancora a dare una sensazione di isolamento. Inoltre, le dimensioni limitate di un'isola rendevano impossibile accettare nella Colonia più di un certo numero di persone. La popolazione massima era stata fissata in centomila abitanti, di più avrebbe significato la perdita dei vantaggi possibili invece a una piccola comunità affiatata. Uno degli scopi dei fondatori di Nuova Atene era che ogni membro della Colonia conoscesse tutti gli altri cittadini che avevano i suoi stessi interessi, e possibilmente l'uno o il due per cento anche degli altri.
L'uomo che aveva voluto Nuova Atene era un ebreo. E, come Mosè, non aveva vissuto tanto da mettere piede nella sua terra promessa, perché la Colonia era stata fondata tre anni dopo la sua morte.
Era nato in Israele, l'ultima nazione indipendente che fosse stata creata e pertanto quella che aveva avuto vita più breve. La fine della sovranità nazionale era stata sentita in Israele con maggior amarezza, forse, che altrove, perché è duro rinunciare a un sogno che si è appena conquistato dopo secoli di sforzi.
Ben Salomon non era un fanatico, ma i ricordi della sua infanzia dovevano avere pesato non poco sulle idee che poi aveva messo in pratica. Poteva soltanto ricordare che cos'era il mondo prima della comparsa dei Superni, e non aveva nessun desiderio che le cose tornassero come prima. Come molti altri uomini intelligenti e bene intenzionati, apprezzava tutto quello che Karellen aveva fatto per la razza umana, pur continuando a soffrire per lo sconosciuto scopo finale di Karellen. Era possibile, si chiedeva spesso, che nonostante la loro immensa intelligenza, i Superni non capissero veramente il genere umano e commettessero un terribile errore con le migliori intenzioni? Era possibile che nella loro passione altruista per l'ordine e la giustizia, avessero deciso di riformare il mondo degli uomini, e non si fossero accorti che insieme stavano distruggendo l'anima dell'uomo?
Il declino era appena cominciato, ma i primi sintomi della putredine già non erano difficili a scoprirsi. Salomon non era artista, ma aveva un'acuta comprensione dell'arte e sapeva che la sua epoca non avrebbe mai potuto rivaleggiare coi secoli precedenti in nessun campo artistico. Forse la situazione sarebbe migliorata col tempo, quando il trauma della collusione coi Superni si fosse attenuato. Ma poteva anche non migliorare, e un uomo prudente doveva cercare un riparo in qualche forma di assicurazione contro il peggio.
Nuova Atene era stata la polizza d'assicurazione a cui Salomon aveva pensato.
La sua realizzazione aveva richiesto vent'anni e la spesa di alcuni miliardi di dollari-decimali, una frazione infinitesima delle ricchezze del mondo. Per i primi quindici anni non era successo niente, negli ultimi cinque, tutto.
L'impresa di Salomon sarebbe stata impossibile se lui non fosse riuscito a convincere della bontà del suo progetto un gruppo di artisti di fama mondiale. Essi lo avevano approvato non perché era importante per la razza ma perché sollecitava il loro "io". Una volta convinti, però, erano riusciti a farsi ascoltare dal mondo e ad averne l'appoggio. Dietro questa spettacolare facciata di nomi illustri, i veri progettisti della Colonia avevano realizzato i loro piani.
Una collettività umana consiste di individui la cui condotta, in quanto tali, non è prevedibile. Ma se si prende in considerazione un numero sufficiente di unità fondamentali, allora certe leggi cominciano ad affiorare, come era stato scoperto già da molto tempo da alcune società di assicurazioni. Nessuno può dire quali individui morranno entro un certo periodo di tempo, pure il numero totale dei decessi può essere previsto con notevole precisione. Ci sono altre leggi, più sottili, intravedute per la prima volta ai primordi del ventesimo secolo da matematici come Weiner e Rashavesky. Costoro avevano sostenuto che eventi come crisi economiche, le conseguenze delle corse agli armamenti, la stabilità dei gruppi sociali, e così via, potevano essere analizzati con esatte tecniche matematiche. La grande difficoltà era il numero enorme di variabili, molte delle quali difficili a definirsi in termini numerici. Non si poteva tracciare un gruppo di curve e dichiarare: "Quando si sarà raggiunta questa linea, vorrà dire la guerra". E non si potevano mai prendere in considerazione eventi così imprevedibili come l'assassinio di un importante uomo politico o gli effetti di una nuova scoperta scientifica, e ancora meno, catastrofi naturali come terremoti o inondazioni che avrebbero potuto avere un effetto profondo su gran numero di persone e sui gruppi sociali entro cui queste persone vivevano.
Eppure si poteva fare molto, grazie alla conoscenza pazientemente accumulata negli ultimi cento anni. Il compito sarebbe stato impossibile senza l'aiuto delle gigantesche macchine calcolatrici che potevano compiere il lavoro di un migliaio di calcolatori umani in pochi secondi. Di tali aiuti ci si era valsi al massimo quando la Colonia era stata concepita.
Anche allora, i fondatori di Nuova Atene erano in grado soltanto di provvedere il suolo e il clima in cui la pianta che essi volevano far crescere sarebbe potuta - o non sarebbe potuta - fiorire. Come lo stesso Salomon aveva osservato: "Dell'ingegno possiamo essere certi: per il genio possiamo soltanto pregare". Ma era una speranza ragionevole che in una soluzione così concentrata potessero verificarsi delle reazioni interessanti. Pochi artisti fioriscono in solitudine, e niente è più stimolante dell'urto di menti con affinità d'interessi.
Fino a quel momento, il conflitto aveva dato vita a opere di valore nel campo della musica, della scultura, della critica letteraria e della cinematografia. Era ancora troppo presto per sapere se il gruppo che lavorava nel campo delle ricerche storiche avrebbe realizzato le speranze di chi aveva voluto quelle gare, e che mirava a far rinascere l'orgoglio della razza per le proprie imprese. La pittura continuava a languire, dando così ragione a coloro che sostenevano che quella statica forma d'arte a due dimensioni non aveva futuro.
Cosa notevole fu - anche se una spiegazione soddisfacente non si sia mai avuta - che il tempo era una parte essenziale nei risultati artistici meglio riusciti della Colonia. La stessa cultura era ben di rado statica. Le curve e i volumi esasperanti di Andrew Carson mutavano lentamente a misura che si guardava l'opera, secondo lineamenti complessi il cui insieme la mente sapeva apprezzare pur senza comprenderli. Infatti Carson affermava in modo abbastanza veritiero di aver portato i "motivi" di un secolo prima alla loro conclusione ultima, intrecciando così, in una sola entità, scultura e balletto.
Gran parte della musica sperimentale della Colonia si basava, nel modo più consapevole, su quella che si potrebbe definire "durata del tempo". Qual era la nota più breve che la mente potesse afferrare... o la più lunga che potesse tollerare senza tedio? Il risultato poteva essere variato mediante il condizionamento o l'uso di un'orchestrazione appropriata? Di questi problemi si discuteva all'infinito, e le discussioni non erano solo accademiche perché ne erano risultate alcune composizioni di estremo interesse.
Ma gli esperimenti più riusciti di Nuova Atene erano le opere d'arte realizzate nel campo dei cartoni animati. Nei cento anni passati dall'epoca di Disney non tutto era stato fatto di quel che era possibile fare con questo mezzo che offriva possibilità enormi. Dal punto di vista puramente spettacolare, si potevano ottenere risultati addirittura identici a quelli ottenuti con la fotografia, cosa questa che provocava lo sdegno di coloro che si dedicavano ai cartoni animati secondo una linea più astratta, più... impegnata.
Il gruppo di artisti e scienziati che avevano fino a quel momento fatto meno era proprio quello che aveva destato il maggior interesse e ispirato la più grande apprensione. Si trattava del gruppo che lavorava alla "completa identificazione". La storia del cinema era la chiave stessa delle loro attività. Prima il cinema sonoro, poi quello a colori, quindi la stereoscopia, infine il cinerama avevano reso l'antica cinematografia sempre più simile alla realtà. Dove stava la conclusione ultima? Certo, l'ultima fase sarebbe stata raggiunta quando il pubblico, dimenticandosi di essere tale, sarebbe divenuto parte dell'azione stessa. Un uomo poteva diventare, almeno per un breve periodo, qualunque altra persona e poteva partecipare a qualunque specie di avventura, reale o immaginaria che fosse. Poteva diventare anche pianta o animale, se appariva possibile cogliere e registrare le impressioni sensorie di altre creature viventi. E quando il "programma" era concluso, il ricordo acquisito sarebbe stato così preciso e vivido come qualunque altra esperienza della sua vita reale, anzi, indistinguibile dalla realtà stessa.
Prospettiva allucinante. Molti la trovavano anche terribile e si auguravano che l'iniziativa si concludesse con un fiasco. Ma sapevano nel fondo della loro anima che quando la scienza aveva dichiarato possibile una cosa, non c'era speranza di sfuggire alla sua attuazione definitiva...
Questa, dunque, era Nuova Atene con alcuni dei suoi sogni. Essa sperava di diventare ciò che l'antica sarebbe potuta divenire se avesse posseduto macchine invece di schiavi, scienza invece di superstizioni. Ma era ancora troppo presto per poter dire se l'esperimento sarebbe riuscito.
15
Jeffrey Greggson era un isolano che per il momento non aveva ancora trovato niente d'interessante nella scienza o nell'estetica, le due principali passioni dei suoi genitori. Ma approvava con tutto il cuore la Colonia, anche se per motivi esclusivamente personali. Il mare, che non si trovava mai più lontano di qualche chilometro in qualunque direzione si guardasse, lo affascinava. La maggior parte della sua breve vita era trascorsa molto lontano, sul continente, e lui non si era ancora abituato del tutto alla novità di essere circondato dall'acqua. Era un buon nuotatore e se ne andava spesso in bicicletta, con altri compagni, portando la maschera e le pinne, a tuffarsi per esplorare le acque limpide e basse della laguna.
Dapprima Jean non fu per niente contenta di queste esplorazioni, ma dopo aver fatto lei stessa qualche tuffo, dimenticò rapidamente la sua paura del mare e delle strane creature che l'abitavano, e lasciò che Jeffrey si divertisse a suo piacere, ma a una condizione: che non andasse in acqua da solo.
L'altro membro della famiglia Greggson che aveva approvato in pieno la nuova vita era Fey, la bionda cagnetta da riporto che nominalmente apparteneva a George, ma che era inseparabile da Jeffrey. I due stavano sempre insieme tanto di giorno, quanto (se Jean non fosse risolutamente intervenuta) di notte. Solo quando Jeffrey se ne andava via in bicicletta, Fey restava a casa, distesa con aria inquieta presso la porta, a fissare la strada con umidi occhi tristi, il muso appoggiato sulle zampe anteriori. Cosa che mortificava George, il quale aveva pagato una bella cifra per Fey e il suo pedigree.
A quanto pareva, avrebbe dovuto aspettare la nuova generazione, il cui avvento doveva verificarsi di là a tre mesi, se voleva avere un cane tutto per sé. Jean aveva altri piani in mente. Voleva bene a Fey, ma riteneva che un solo cane in famiglia fosse più che sufficiente.
Solo Jennifer Anne non sapeva ancora se amava o no la Colonia. Cosa che non aveva in sé nulla di sorprendente, dato che fino a quel momento la bimba non aveva visto nulla del mondo che si stendeva oltre i pannelli di plastica del suo lettino e aveva ancora una certezza molto relativa che un simile luogo esistesse.
George Greggson non pensava spesso al passato: era troppo assorto nei suoi piani per l'avvenire, troppo intento al suo lavoro e ai suoi bambini. Era difficile infatti che la sua mente tornasse indietro di molti anni a quella certa sera in Africa, e non ne parlava mai con Jean.
L'argomento veniva evitato di comune accordo, e da quel famoso giorno non erano più andati a trovare i Boyce nonostante i ripetuti inviti. Parecchie volte all'anno chiamavano Rupert per fare le loro scuse, e alla fine lui aveva smesso di invitarli. E a proposito di Rupert, con sorpresa di tutti, il suo matrimonio con Maia reggeva ancora e molto bene.
Altro effetto di quella serata: Jean non sentiva più nessun desiderio di frugare nei misteri ai limiti della scienza. La curiosità ingenua che l'aveva attirata un tempo verso Rupert e i suoi esperimenti era totalmente scomparsa. Forse era rimasta convinta e non voleva altre prove, ma George preferiva non chiederglielo. Era anche probabile che le preoccupazioni della maternità avessero bandito dalla sua mente quegli interessi quasi morbosi.
Era del tutto inutile, pensava George, lambiccarsi il cervello su di un mistero che non si sarebbe mai potuto risolvere, ma a volte, nel gran silenzio della notte, si svegliava e si metteva a pensare. Ricordava il suo incontro con Jan Rodricks sulla terrazza della villa di Rupert, le poche parole che aveva scambiato col solo essere umano che fosse riuscito a sfidare la proibizione dei Superni. Non c'era cosa soprannaturale più fantastica del semplice fatto scientifico che, sebbene fossero passati quasi dieci anni dalla sera in cui George aveva parlato a Jan, quell'astronauta, ora spaventosamente lontano nello spazio, era invecchiato solo di qualche giorno.
L'universo era vasto, ma quel fatto lo atterriva meno del suo mistero. George non era uomo da approfondire, ma a volte gli sembrava che gli uomini fossero come bambini ruzzanti entro la cinta di un giardino d'infanzia, protetti contro le paurose realtà del mondo esterno. Jan Rodricks si era risentito di quella protezione e si era sottratto, era fuggito, nessuno sapeva dove. Ma in questo George si schierava dalla parte dei Superni. Non desiderava affrontare ciò che si annidava nelle tenebre ignote oltre il piccolo cerchio di luce gettato dalla lampada della scienza.
«Si può sapere perché» si lamentò George «Jeff è sempre fuori quando mi capita di stare in casa? Dov'è andato oggi?»
Jean alzò gli occhi dal suo lavoro a maglia, un'occupazione arcaica che da qualche tempo era tornata in gran voga. Mode del genere si affermavano e scomparivano nell'isola in cicli particolarmente intensi. Conseguenza di questa moda del lavoro a maglia era che adesso tutti gli uomini della Colonia si vedevano regalare maglioni multicolori, che forse tenevano un caldo infernale durante il giorno, ma erano adattissimi dopo il tramonto.
«È andato a Sparta con alcuni amici» rispose Jean. «Ma ha promesso di essere di ritorno per l'ora di pranzo.»
«A dir la verità, ero venuto a casa per lavorare un po'» disse George, con aria pensierosa. «Ma è una così bella giornata che voglio uscire anche io e andare a fare un bagno. Che genere di pesce vorresti che ti portassi a casa?»
George non era mai riuscito a prendere niente: i pesci della laguna erano troppo astuti per lasciarsi intrappolare. Jean stava appunto per rispondere in questo senso, quando la pace del pomeriggio fu lacerata da un suono che ebbe il potere, perfino in quell'epoca di grande tranquillità, di far gelare il sangue nelle vene.
Era l'ululo della sirena, che saliva e scemava, diffondendo il suo avvertimento di pericolo in larghe onde concentriche.
Da quasi un secolo, nelle buie profondità in ebollizione sotto il letto dell'oceano, le forze in azione erano lentamente aumentate. Il canyon sottomarino si era formato da molte ere geologiche, ma le rocce torturate dalla pressione non si erano mai completamente assestate. Innumerevoli volte i vari strati si erano spaccati provocando spostamenti, e l'inimmaginabile peso dell'acqua comprometteva il loro equilibrio. Adesso stavano per muoversi ancora.
Jeff era intento a esplorare le rocciose grotte subacquee lungo la stretta spiaggia di Sparta, attività che egli trovava infinitamente interessante. Non sapevi mai quali esotiche creature potevi trovare, al riparo là dentro dalle onde che attraversavano di continuo le immense estensioni del Pacifico per venire a spegnersi contro le scogliere Era una specie di regno fatato per qualunque ragazzo, e in quell'istante Jeff aveva quel regno tutto per sé, dato che i suoi amici erano andati, quel giorno, a fare una gita sulle alture.
Era una giornata tranquilla e serena. Non soffiava un alito di vento e perfino l'eterno mormorio gorgogliante dei marosi oltre la scogliera era sceso a un sommesso e monotono sciacquio. Un sole rutilante sfolgorava sulla metà del cielo occidentale, ma il corpo brunito di Jeff era ormai del tutto immune dai suoi attacchi.
In quel punto la spiaggia era una stretta striscia di sabbia che s'inoltrava nella laguna scendendo a picco. Guardando giù nell'acqua trasparente, Jeff poteva vedere le formazioni rocciose che lui conosceva bene quanto i rilievi della terraferma. Circa dieci metri più giù, la chiglia panciuta di un antico veliero si alzava verso il mondo abbandonato circa due secoli prima. Jeff e i suoi amici avevano spesso esplorato il relitto, ma le loro speranze erano state deluse. Tutto quello che avevano riportato dalle loro esplorazioni era una bussola tutta incrostata di molluschi.
Con estrema fermezza, qualcosa si impadronì della spiaggia e le dette un solo, brusco strattone. Il tremito fu così rapido e breve che Jeff ebbe il dubbio d'esserselo immaginato. Forse era stato uno stordimento momentaneo, perché tutto, intorno a lui, era rimasto immutato. Le acque della laguna erano placide, il cielo sgombero d'ogni nube, d'ogni minaccia. E ad un tratto cominciò a succedere qualcosa di molto strano.
Più velocemente d'ogni moto riflesso, l'acqua retrocedeva dalla spiaggia. Jeff osservava, sbalordito ma tutt'altro che spaventato, la sabbia che appariva nuda e scintillante al sole. Si mise a seguire l'oceano che si ritraeva, risoluto a scoprire tutto quello che poteva su quel fenomeno del mondo subacqueo.
Fu allora che avvertì il rumore che veniva dalla scogliera. Non aveva mai udito niente di simile prima, e si fermò per riflettere, coi piedi nudi che affondavano lentamente nella poltiglia sabbiosa. Un gran pesce guizzava nelle convulsioni dell'agonia a qualche metro di distanza, ma Jeff quasi non gli badò. Stava là ritto, teso, in ascolto, mentre il rumore della scogliera cresceva e si spandeva intorno a lui.
Era un suono gorgogliante, di risucchio, come di un fiume che scorresse precipitoso in un letto stretto e profondo. Era la voce del mare che si ritirava riluttante, rabbioso di perdere, anche per un solo istante, quella terra che gli spettava di diritto. Attraverso le belle ramificazioni coralline, attraverso le segrete caverne subacquee, milioni di tonnellate d'acqua si rovesciavano dalla laguna nella vastità del Pacifico.
Molto presto, rapidissime, sarebbero tornate.
Una delle squadre di soccorso, alcune ore dopo, trovò Jeff su di un gran blocco di corallo che era stato scagliato una ventina di metri al disopra del normale livello d'acqua. Il ragazzo non sembrava molto spaventato, anche se lo amareggiava la perdita della bicicletta. Era soprattutto affamato, dato che la parziale distruzione della lingua di terra lo aveva imprigionato su Sparta. Quando la squadra di soccorso era arrivata, lui stava decidendosi a tornare ad Atene a nuoto e, a meno che le correnti non avessero cambiato il loro corso completamente, sarebbe senza dubbio riuscito a fare la traversata senza troppi inconvenienti.
Jean e George avevano assistito a tutte le fasi del maremoto. Nelle zone più basse di Atene i danni erano stati notevoli, ma senza perdita di vite umane. I sismografi avevano potuto annunciare il fenomeno con soli quindici minuti di anticipo, ma era stato sufficiente perché tutti riparassero oltre la linea di pericolo. Ora la Colonia stava leccandosi le ferite e raccogliendo un cumulo di dicerie che col tempo sarebbero diventate leggende.
Jean scoppiò in lacrime quando le fu restituito suo figlio, perché si era già convinta che fosse stato inghiottito dall'oceano. Sembrava incredibile che Jeff avesse potuto mettersi in salvo in tempo data la rapidità con cui lo "tsunami" si era abbattuto sull'isola.
Ma non c'era da sorprendersi che Jeff non fosse in grado di fare un'esposizione molto razionale dell'accaduto. Dopo che ebbe mangiato e fu posto bene al sicuro sotto le coperte, Jean e George si sedettero accanto al suo letto.
«Dormi ora, caro» disse Jean «e cerca di non pensarci più. Stai benissimo ora.»
«Ma il buffo è, mamma» protestò Jeff «che io non mi sono spaventato per niente, in fondo.»
«Molto bene» intervenne George, «Sei un bravo ragazzo ed è stata una fortuna che tu abbia avuto il buon senso di metterti in salvo tempestivamente. Avevo già sentito parlare di queste improvvise ondate di marea. Un mucchio di gente muore perché corre fuori, inoltrandosi sulla spiaggia, per vedere che cosa succede.»
«E proprio quello che ho fatto io» confessò il ragazzo. «Mi domando chi è stato a salvarmi...»
«Che cosa stai dicendo? Non c'era nessuno con te. Tutti gli altri ragazzi erano andati in montagna.»
Jeff parve perplesso.
«Eppure qualcuno mi ha detto di mettermi a correre.»
Jean e George si guardarono, lievemente preoccupati.
«Vuoi dire che ti è parso di sentire qualcosa?»
«Oh, non stiamo a frastornarlo ora» disse Jean, un po' troppo in fretta. Ma George era testardo.
«Voglio andare in fondo alla faccenda. Dimmi tutto quello che è successo, Jeff.»
«Ecco, mi trovavo proprio sulla spiaggia, presso il vecchio relitto, quando la voce ha parlato.»
«Che cosa ha detto?»
«Non ricordo bene, ma era qualcosa come "Jeffrey, corri su in montagna il più presto possibile. Morirai affogato, se resti qui". Sono certo che mi ha chiamato Jeffrey e non Jeff. Così che non può essere stato uno qualunque di mia conoscenza.»
«Era una voce d'uomo? E da dove veniva?»
«Era vicinissima a me. E si sarebbe detta quella d'un uomo...»
Esitò per un attimo e George lo sollecitò: «Va' avanti... cerca d'immaginarti d'essere ancora sulla spiaggia e dicci esattamente com'è andata.»
«Ecco, non era come la voce di un uomo che io avessi già inteso prima. Doveva essere comunque un uomo molto grande.»
«E non ha detto altro?»
«No, fino a quando ho cominciato ad arrampicarmi sulla montagna. Allora è successa un'altra strana cosa. Conosci il sentiero che sale dalla scogliera?»
«Sì.»
«Salivo di corsa su per quel sentiero, perché è la strada più corta. Sapevo ora quello che stava per succedere perché avevo visto la grande ondata venire avanti, e poi faceva un fracasso enorme. A un tratto ho visto che una gran roccia mi sbarrava la strada. Non c'era mai stata... e mi sono accorto che non avevo modo di girarle intorno.»
«La scossa di terremoto deve averla fatta rotolare fin là» disse George.
«Ssst! continua, Jeff.»
«Per un attimo non ho saputo cosa fare, e sentivo l'ondata avvicinarsi sempre di più. Poi la voce ha detto: "Chiudi gli occhi, Jeffrey, e metti le mani davanti alla faccia". Sembrava una cosa buffa da fare proprio in quel momento, però ho ubbidito. E allora c'è stato come un grande lampo... mi pareva quasi di sentirlo tutto intorno e quando ho riaperto gli occhi, la roccia non c'era più.»
«Non c'era più?»
«No! Scomparsa, non c'era più. Così mi sono messo a correre di nuovo ed è stato allora che mi sono quasi bruciato i piedi, tanto il terreno scottava. L'acqua si è messa a friggere quando c'è passata sopra, ma non mi ha potuto raggiungere: ormai ero salito troppo in alto. E questo è tutto. Sono tornato giù quando non c'erano più onde. Allora ho scoperto che la mia bicicletta era sparita e che la strada per tornare a casa era sprofondata.»
«Non prendertela per la bicicletta, caro» disse Jean, abbracciando suo figlio col cuore pieno di gioia. «Te ne regaleremo un'altra. La sola cosa che conti è che sei salvo. Non staremo a preoccuparci su come ti sei salvato.»
Non era vero, naturalmente, perché marito e moglie si consultarono appena usciti dalla stanza del ragazzo. Non giunsero a nessuna conclusione, ma la discussione ebbe due risultati. Il giorno dopo, senza dire niente a George, Jean condusse il figliolo dal neurologo della Colonia. Il medico ascoltò con grande attenzione il racconto che Jeff gli fece, per niente impressionato dal nuovo ambiente; poi, mentre nella stanza accanto il bambino osservava i giocattoli, il medico tranquillizzò Jean.
«Nella scheda di vostro figlio non c'è niente che faccia sospettare una qualche anormalità psichica. Non dovete dimenticare che il ragazzo ha avuto un'esperienza spaventosa, e anzi, devo dire che ne è uscito benissimo. Jeff possiede molta immaginazione e con tutta probabilità è convinto lui stesso della sua storia. Quindi accettatela anche voi per quello che è e non preoccupatevi, a meno che in seguito non notiate altri sintomi.»
Quella sera, lei raccontò al marito la diagnosi del medico, ma George non parve sollevato come lei aveva sperato. «Meglio così» brontolò a mezza voce, e subito si mise a sfogliare l'ultimo numero di «Schermo e Ribalta», come se improvvisamente la cosa non avesse interesse per lui. Jean ne fu vagamente offesa.
Ma tre settimane dopo, il primo giorno in cui la strada sulla striscia di terra fu riaperta, George saltò in bicicletta e si allontanò verso Sparta. La spiaggia era ancora cosparsa di frantumi corallini, e in un punto la stessa scogliera sembrava sfondata.
C'era soltanto un sentiero che si arrampicava sul fianco verticale della montagna e dopo aver ripreso fiato George cominciò a salire. Qualche frammento essiccato di alghe, impigliate tra le rocce, segnava il limite massimo raggiunto dalle acque.
George Greggson rimase per molto tempo su quel sentiero deserto, a fissare la chiarezza di roccia fusa sotto i suoi piedi. Cercò di convincersi che si trattava di qualche anomalia del vulcano estinto, ma in breve abbandonò quegli inutili tentativi d'ingannare se stesso. La sua mente tornò alla notte di dieci anni prima, quando con Jean aveva partecipato alla sciocco esperimento di Rupert. Nessuno aveva mai compreso bene che cosa fosse accaduto in quell'occasione, ma ora George capì che in qualche modo, e per motivi insondabili, quei due bizzarri eventi erano connessi. La prima volta, era stata sua moglie, ora suo figlio. George non sapeva se esserne lieto o angosciato e in cuor suo elevò una muta preghiera: "Grazie, Karellen, per quanto la tua gente ha fatto per Jeff. Ma vorrei sapere perché l'ha fatto".
Ridiscese lentamente verso la spiaggia, e i grandi gabbiani candidi gli volteggiarono intorno, visibilmente seccati perché non aveva portato cibo da gettare per loro.
16
Sebbene avessero dovuto aspettarsela in qualunque momento a partire dal giorno in cui la Colonia era stata fondata, la richiesta di Karellen scoppiò come una bomba. Rappresentò una crisi nella storia di Nuova Atene, e nessuno poté capire se i risultati sarebbero stati buoni o cattivi.
Fino a quel momento la Colonia aveva proseguito per la sua strada senza interferenze da parte dei Superni. Essi l'avevano lasciata del tutto tranquilla, come facevano con molte attività umane che non turbavano l'ordine e non offendevano i loro codici. Che gli scopi di Nuova Atene potessero definirsi sovversivi non era del tutto dimostrato. Non erano scopi politici, ma certo sollecitavano lo spirito di indipendenza per artisti e intellettuali. E da questo, chi sapeva cosa poteva derivare? I Superni forse erano in grado di prevedere il futuro di Nuova Atene meglio dei suoi fondatori, e poteva darsi che quel futuro non gli piacesse per nulla.
Naturalmente, se Karellen desiderava inviare un osservatore, ispettore, o comunque lo si volesse chiamare, nessuno poteva farci niente. Venti anni prima i Superni avevano annunciato di avere sospeso ogni uso dei loro congegni di sorveglianza, così che l'umanità non doveva più considerarsi spiata continuamente. Tuttavia il fatto che quei congegni continuassero a esistere voleva dire che niente poteva avvenire all'insaputa dei Superni qualora essi avessero voluto veramente sapere.
Ma c'era qualcuno nell'isola che era lieto di quella visita, perché offriva qualche probabilità di risolvere uno dei problemi minori della psicologia Superna: l'atteggiamento di quelle strane creature verso l'arte. La consideravano forse un'aberrazione infantile della razza umana? O avevano essi pure qualche forma d'arte? In questo caso, lo scopo della visita era semplicemente estetico? Oppure Karellen aveva scopi meno candidi?
Tutti argomenti di cui si discusse all'infinito mentre fervevano intensi i preparativi per quella visita.
Del Superno che avrebbe visitato la Colonia non si sapeva niente, ma si dava per scontato che potesse imparare qualsiasi cosa in quantità illimitate. Avrebbero perciò tentato l'esperimento, e un gruppo di uomini fra i più qualificati avrebbe osservato con interesse le reazioni della loro cavia. L'attuale presidente del consiglio era il filosofo Charles Yan Sen, uomo ironico, bonario, non ancora sessantenne e pertanto nel pieno vigore d'una giovanile maturità. Platone lo avrebbe approvato come l'esempio del filosofo-statista, anche se Yan Sen non approvava del tutto Platone, che lui accusava di aver grossolanamente falsato il pensiero di Socrate. Yan Sen era uno degli isolani che contavano di trarre il massimo profitto da quella visita se non altro per mostrare ai Superni che gli uomini avevano ancora spirito d'iniziativa, e non erano, per usare la sua espressione, "del tutto addomesticati".
Nella Colonia ogni iniziativa faceva capo a un comitato, ultimo sopravvissuto baluardo del sistema democratico. Una volta qualcuno aveva definito Nuova Atene una catena di comitati, comunque, il sistema funzionava grazie al paziente lavoro degli psicologi che erano stati i veri fondatori della Colonia. Trattandosi di una comunità ristretta, ogni suo membro poteva partecipare alla sua amministrazione ed essere così un cittadino nel vero senso della parola.
Era quasi inevitabile che George, come elemento in vista della gerarchia artistica, facesse parte del comitato di ricevimento. Se i Superni volevano studiare la Colonia, George si era reso conto di voler studiare i Superni. Cosa che non allietava troppo Jean. Fin dalla famosa sera a casa di Rupert, lei aveva nutrito una vaga ostilità verso i Superni, pur senza saperne il perché.
Il Superno arrivò senza cerimonie particolari in un comune aereo di fabbricazione umana, con grande delusione di coloro che si erano aspettati qualcosa di eccezionale. Sarebbe potuto essere lo stesso Karellen, dato che nessuno era mai riuscito a distinguere un Superno dall'altro con un minimo di certezza. Parevano tutti copie di un unico modello. Forse lo erano, in virtù di qualche sconosciuto processo biologico.
Dopo il primo giorno, gli isolani cessarono di prestare molta attenzione quando un'auto del consiglio passava con un lievissimo mormorio per una delle visite turistiche in programma. Il nome preciso del visitatore, Thanthalteresco, si era rivelato superiore alle possibilità di pronuncia dei più, per cui il Superno fu in breve chiamato per antonomasia "l'Ispettore". Nome abbastanza descrittivo, perché la curiosità e la fame di dati statistici dell'individuo erano inesauribili.
Charles Yan Sen era del tutto sfinito, quando molto dopo la mezzanotte ebbe accompagnato l'Ispettore all'aereo, che gli serviva d'alloggio e dove, senza dubbio, avrebbe continuato a lavorare tutta la notte, mentre i suoi ospiti terrestri indulgevano a una così tipica debolezza umana come il sonno.
La signora Sen accolse ansiosamente il marito al suo ritorno a casa. Erano una coppia bene affiatata, nonostante l'abitudine scherzosa di lui di chiamare la moglie Santippe quando c'erano ospiti. Lei aveva minacciato adeguate rappresaglie mediante la preparazione di una tazza di cicuta, ma per fortuna quest'erba letale era meno comune nella Nuova che nell'antica Atene.
«È andato tutto bene?» domandò lei al marito, che si sedeva a tavola per consumare una cena che lo aspettava da cinque o sei ore.
«Direi di sì, per quanto non si possa mai dire che cosa passa in quelle loro menti straordinarie. Ha trovato certamente tutto interessante, mi ha rivolto perfino dei complimenti. Mi sono scusato, a proposito, per non averlo invitato qui, a casa nostra. Ha risposto che comprendeva benissimo e che non aveva nessuna voglia di battere la testa contro il nostro soffitto.»
«Che cosa gli hai mostrato, oggi?»
«La parte amministrativa. Pare che non l'abbia trovata noiosa come capita invece a me. Ha fatto tutte le domande possibili e immaginabili sulla produzione, sul nostro bilancio, sulle risorse minerali, sul numero delle nascite, sul come provvediamo al cibo, eccetera. Per fortuna con noi c'era il segretario Harrison che si era preparato sui rapporti annuali sin dall'inizio della Colonia. Avresti dovuto sentirlo sparare dati statistici! L'Ispettore si è fatto prestare tutti gli annuari, e son pronto a scommettere che domani sarà in grado di citare a noi cifra su cifra per ogni anno. A me questo genere di spettacolo di abilità mentale fa un effetto deprimente!»
Sbadigliò, prima di cominciare a mangiare.
«Domani sarà una giornata più interessante. Si visitano le scuole e l'Accademia. Quando sarà la mia volta di fare qualche domanda, vorrei sapere come i Superni crescono i loro piccoli... sempre che ne abbiano, naturalmente.»
Ma questa era proprio una delle domande a cui Charles Yan Sen non avrebbe mai avuto risposta, anche se su altri argomenti l'Ispettore si rivelò addirittura loquace. Sapeva evadere alle domande imbarazzanti con un garbo inimitabile, per poi, del tutto inaspettatamente, divenire addirittura confidenziale.
La prima volta che ciò avvenne fu mentre si allontanavano in macchina dalla scuola, una delle grandi ragioni di orgoglio della Colonia. «È una grande responsabilità» aveva osservato il dottor Yan Sen «istruire queste giovani menti per l'avvenire. Per fortuna, gli esseri umani sono straordinariamente duttili: occorre un'educazione davvero sbagliata per arrecare guasti permanenti. Anche se i nostri fini sono errati, le nostre piccole vittime sapranno cavarsela. E, come avete visto, hanno l'aria del tutto contenta.» Fece una breve pausa, poi lanciò un'occhiata maliziosa dal sotto in su alla figura torreggiante dell'ospite. L'Ispettore era avvolto in una specie di tessuto argenteo, tutto riflessi, così che non un centimetro del suo corpo era esposto alla radiazione solare. Il dottor Sen ebbe coscienza di due grandi occhi che dietro le lenti scure lo fissavano senza emozione, o con emozioni che lui non avrebbe mai potuto capire. E riprese: «I nostri problemi nell'allevare questi ragazzi devono essere, immagino, molto simili ai vostri, quando vi trovate davanti alla razza umana.»
«Sotto certi aspetti» ammise il Superno gravemente. «In altri, si potrebbe trovare una analogia forse più pertinente nella storia delle vostre potenze coloniali. Gli imperi romano e britannico, in questo campo, hanno sempre rappresentato un esempio interessante. Il caso dell'India è di particolare insegnamento. La differenza principale fra noi e gli inglesi in India sta nel fatto che essi non avevano nessun vero motivo per andare in India, nessuno scopo dettato dalla coscienza, intendo, eccettuati motivi contingenti trascurabili come interessi commerciali o rivalità con altre potenze europee. Si trovarono in possesso di un impero ancora prima di sapere che cosa farsene, e non ne hanno mai tratto felicità alcuna, se non il giorno in cui se ne sono liberati.»
«E voi pure» chiese Yan Sen «vi libererete del vostro impero, quando sarà venuto il momento?»
«Senza la più lieve esitazione» rispose l'Ispettore.
Il dottor Sen non insistette. La pronta franchezza della risposta non era stata delle più lusinghiere; e del resto erano arrivati all'Accademia, dove i pedagoghi si erano riuniti e aspettavano di aguzzare gli ingegni su un vero Superno in carne e ossa.
«Come il nostro illustre collega vi avrà riferito» disse il professor Chance, Rettore dell'Università di Nuova Atene «nostro scopo principale è mantenere la mente della popolazione sempre attiva, così che gli individui possano rendersi conto di tutte le loro possibilità. Oltre quest'isola - e il gesto di Chance parve indicare, e respingere, il resto del globo - temo che la razza umana abbia perso il suo spirito d'iniziativa. Ha pace e abbondanza... ma non ha orizzonti.»
«Mentre qui, naturalmente?...» interloquì blando il Superno.
Chance, che mancava di ogni senso umoristico e ne era vagamente conscio, lanciò un'occhiata sospettosa al visitatore.
«Qui» riprese «non siamo affetti dall'antica ossessione che la vita comoda sia un male. Ma non ci sembra che basti il solo fatto di ricevere passivamente dall'alto lo svago e le comodità. Ognuno su questa isola ha un'ambizione, che si può riassumere in modo molto semplice: fare qualche cosa, per piccola che sia, meglio di chiunque altro. Naturalmente, è un ideale che non tutti conseguiamo. Ma nel mondo odierno la cosa importante è proprio avere un ideale. Che lo si attui o no, è molto meno importante.»
L'Ispettore non parve disposto a fare commenti. Si era spogliato del suo indumento di protezione, ma aveva ancora gli occhiali neri, che sembravano essergli necessari anche nella luce attenuata della Sala Riunioni. Il Rettore pensò che forse rappresentavano una necessità fisiologica, o forse erano un semplice mascheramento mimetico. Certo rendevano ancora più difficile il compito già arduo di intuire i pensieri del Superno. Costui comunque non parve avere niente da obiettare alle dichiarazioni polemiche che gli erano state lanciate come un guanto di sfida.
Il Rettore stava per rinnovare i suoi attacchi, quando il professor Sperling, capo della Sezione Scienze, pensò bene di trasformare il duello in una guerra su tre fronti.
«Come senza dubbio saprete, signore, uno dei grandi problemi della nostra cultura è stato il dissidio fra arte e scienza. Mi piacerebbe conoscere il vostro pensiero sull'argomento. Approvate anche voi l'opinione che tutti gli artisti sono degli anormali? Che la loro opera, o comunque l'impulso che la genera, è conseguenza di una insoddisfazione psicologica profondamente radicata?»
Chance si schiarì la voce in modo eloquente, ma l'Ispettore lo precedette.
«Mi è stato detto che tutti gli uomini sono artisti fino a un certo grado, così che ognuno è capace di creare qualche cosa, sia pure a un livello rudimentale. Ieri, per esempio, visitando la vostra scuola ho osservato la insistenza sulla individualità che traspare nei disegni, nella pittura, nella scultura. Impulso che m'è parso comune a tutti, anche tra coloro chiaramente destinati a specializzarsi nelle scienze. Così che, se tutti gli artisti sono anormali e tutti gli uomini sono artisti, il sillogismo che ci troviamo a considerare diviene di particolare interesse...»
Tutti aspettarono che l'Ispettore terminasse la frase. Ma quando conveniva loro, i Superni sapevano essere pieni di tatto.
L'Ispettore sopportò il concerto sinfonico con buona grazia, vale a dire meglio di molti umani presenti. L'unica concessione al gusto della maggioranza fu una sinfonia di Stravinsky, il resto del programma era composto da pezzi aggressivamente moderni. A parte i gusti personali, però, l'esibizione fu di primissimo ordine perché la dichiarazione che la Colonia possedeva un buon numero dei migliori concertisti della Terra non era una vanteria infondata. Tra i vari compositori c'era stata lotta per l'onore di comparire nel programma, anche se alcuni cinici mettevano in dubbio che fosse un onore. Per quello che se ne sapeva, i Superni potevano anche essere del tutto sordi alla musica.
Si osservò, comunque, che dopo il concerto l'Ispettore volle conoscere i tre compositori presentati e si complimentò con loro per "la grande inventiva dimostrata". La frase provocò risposte compiaciute ma un po' perplesse.
Fu solo al terzo giorno che George Greggson ebbe modo di conoscere l'Ispettore. Il teatro aveva preparato una specie di fritto misto più che una sola portata di gran classe: due lavori di un atto, uno sketch rappresentato da un attore di fama mondiale e una sequenza di balletto. Ancora una volta, ogni elemento del programma fu rappresentato in modo superbo, e la previsione di un critico: «Ora almeno scopriremo se i Superni sanno sbadigliare» ebbe una clamorosa smentita. L'Ispettore infatti rise parecchie volte e sempre al punto giusto.
Tuttavia... no, nessuno avrebbe potuto esserne certo, ma sembrava a volte che anche lui recitasse magnificamente una parte, seguendo la rappresentazione in virtù della sola logica, e con le sue incomprensibili emozioni completamente intatte, come un antropologo che partecipi a qualche rito primitivo.
Il fatto che egli emettesse i suoni giusti e formulasse le risposte che ci si aspettava, non dimostrava niente.
Sebbene fosse deciso ad avere un colloquio con l'Ispettore, George fece miseramente fiasco. Dopo lo spettacolo, i due scambiarono poche parole, subito dopo la presentazione, quindi il Superno fu portato via come da una piena. Fu del tutto impossibile isolarlo dalla sua corte, e George se ne tornò a casa in preda a una vera crisi di frustrazione. Aveva sperato di poter parlare con l'Ispettore a proposito di Jeff e della sua strana esperienza, e ora l'occasione era sfumata per sempre.
Il suo cattivo umore durò due giorni. L'aereo dell'Ispettore si era levato in volo, fra molte dichiarazioni di reciproca stima, prima che il seguito comparisse. Nessuno aveva pensato di fare domande a Jeff, e lui ci pensò parecchio prima di risolversi a parlarne al padre.
«Papà» disse una sera, poco prima di andare a letto «conosci il Superno che è venuto a visitare la Colonia?»
«Sì» rispose George in tono acre.
«Bene, è venuto a visitare anche la nostra scuola e io l'ho sentito parlare a qualche professore. Non ho capito bene quello che diceva... ma credo proprio di avere riconosciuto la voce: era la stessa voce che mi aveva detto di correre via presto, quando arrivò l'ondata.»
«Ne sei sicuro?»
Jeff esitò per un istante.
«Non del tutto, ma se non è stato lui è stato di certo un altro Superno. Mi sono chiesto se non dovessi per caso ringraziarlo. Ma adesso se n'è andato, vero?»
«Sì» rispose George «temo proprio che se ne sia andato. Ma può darsi che ci si offra un'altra occasione. Ora, ti prego, fa' il bravo ragazzo, vattene a letto e non pensare più a tutte queste cose.»
Quando Jeff fu al sicuro in camera sua, e a Jenny fu debitamente provveduto, Jean tornò e andò a sedersi sul tappeto accanto alla poltrona di George, appoggiandosi alle gambe di lui. Era un vezzo che lo colpì come tediosamente sentimentale, ma che non valeva la pena di una discussione. Si limitò a scostare le ginocchia quanto più possibile. «Che ne pensi, ora?» domandò a un tratto Jean con voce stanca. «Credi che la cosa sia realmente avvenuta?»
«Sì, il fatto è realmente avvenuto» rispose George «ma forse è sciocco da parte nostra prendercela tanto. Dopo tutto, qualunque altra coppia di genitori sarebbe grata per quell'intervento, e naturalmente io sono gratissimo ai Superni. La spiegazione può essere straordinariamente semplice. La colonia interessa i Superni, e può darsi che la stessero spiando coi loro strumenti segreti, nonostante la loro dichiarazione, quando l'ondata si stava avvicinando.»
«Ma chi ha parlato conosceva il nome di Jeff, non dimenticarlo. No, è proprio noi che i Superni sorvegliano. C'è qualcosa di particolare in noi che attira la loro attenzione. L'ho sentito fin da quella sera in casa di Rupert. È strano come quella serata abbia cambiato le nostre vite.»